C'è chi ha addolcito il passaggio ai rivali storici, saltando da un partitino all'altro prima di accasarsi. Non l'ex deputato e segretario regionale del Pd che ha scelto la via più breve. La stessa spesso intrapresa anche nel calcio, teatro di disinvolti attraversamenti di linee Maginot. Come quella tra Catania e Palermo
Genovese, Zenga e il sesso degli arancini Tutti i derby per finta della politica siciliana
Che poi, che ci sarà mai di tanto strano nel fatto che Francantonio Genovese, già sindaco di Messina (Pd), già deputato nazionale (sempre Pd), già segretario regionale (del Pd, ci mancherebbe) sia trasmigrato, con tutto il suo staff, direttamente nel partito di Berlusconi? E non lo dico – sia chiaro – per dar pretesti alla greve ironia che qualcuno potrebbe scatenare sui procedimenti giudiziari a carico del suddetto Genovese: finito in carcere, e poi ai domiciliari, a seguito di autorizzazione a procedere votata dal suo stesso partito; difeso in aula, in quell’occasione, proprio dai parlamentari di Forza Italia; e oggi ancora in attesa di giudizio, e perciò fino ad allora sospeso da ogni ufficiale incarico politico. Non è questo il punto, no davvero.
E che bisogno c’è di mettersi a sfogliare all’indietro l’almanacco della politica siciliana, in cerca dei frequenti transiti lungo la strada a doppio senso che congiunge il centrodestra con il centrosinistra? Di soffermarsi, per esempio, su Nello Dipasquale, già sindaco di Ragusa, oggi deputato regionale, passato in pochi mesi dalla repulsione fisica per il partito di Renzi («Questo Partito democratico fa schifo!») al più felice dei matrimoni («Condivido ogni singola proposta di Matteo») dopo una rapida sosta nel Megafono di Crocetta? O di ripercorrere i vorticosi passi di danza che hanno condotto di sigla in sigla Raffaele “Pippo” Nicotra da Aci Catena (dal Pdl al Pd, passando per Udc, Mpa e Articolo 4)?
A qualcuno, magari, sarà tornato in mente lo strano caso delle primarie nel Pd di Agrigento, che videro pochi mesi fa trionfatore il presidente della locale squadra di calcio, Silvio Alessi. ll quale, a cose fatte, si rivelò essere un po’ più berlusconiano del previsto. E fu perciò ripudiato dal partito che l’aveva scelto, per essere candidato, secondo natura, da Forza Italia. E chissà quante storie simili, non siciliane, si potrebbero adesso ripescare. Ci si potrebbe mettere a rifare la cronistoria dei cambi di casacca di quest’ultima legislatura. O a sgranare pazientemente il rosario degli ex (comunisti, pidiessini, demoproletari ed extraparlamentari di estrema sinistra) confluiti in vari tempi e luoghi nel partito di Berlusconi. Ma basterà per tutti recitare il nome di Sandro Bondi. Il quale, prima di dividersi tra la passione per la poesia e quella che – fino a ieri – l’ha indissolubilmente legato al Cavaliere, non s’era fatto mancare un’esperienza di sindaco nella sua Fivizzano. Con il partito comunista, ben s’intende.
Eppure, che non ci sia nulla di nuovo nelle storie che in questi giorni increspano la superficie della politica, può dircelo un altro almanacco: ossia quello del calcio. Al quale tocca spesso far da metafora a questo o quell’altro aspetto della nostra vita. E che può anche in questo caso raccontarci di transumanze lungo percorsi non meno impervi; di disinvolti attraversamenti di linee Maginot che – da tifosi quali tutti siamo – ci piaceva immaginarci impenetrabili. Come la linea che separa il Catania dal Palermo. Che, in termini di identità sportiva e di rivalità, non dovrebbero certo essere meno distanti di quanto un Pd lo sia da una Forza Italia.
Che ragione c’era, infatti, perché i tifosi del Catania la prendessero così male, quando una decina d’anni fa il talentuoso centrocampista Fabio Caserta svestì la maglia rossazzurra per indossare quella rosanero? Caserta era un professionista e il Palermo di Zamparini prometteva allora alla sua carriera magnifiche sorti e progressive. E poco importa che poi tale carriera si sia chiusa senza troppa gloria. Che sia toccato a Caserta, nel suo primo anno in rosanero, sbagliare il rigore che fece uscire precocemente il Palermo dalla Coppa Uefa. O farsi espellere proprio al Massimino, nel derby, propiziando la vittoria per 3 a 1 della sua ex squadra.
E perché poi far tante storie quando Walter Zenga, tecnico di due salvezze rossazzurre e artefice del trionfale 4 a 0 alla Favorita (indimenticabile il gol da centrocampo di Mascara, un ex rosanero) si trasferì con tutto il suo staff appunto da Catania a Palermo? Anche Zenga era un professionista che inseguiva contratti e carriera. E poco male se – dopo aver promesso ai suoi lo scudetto, dopo aver ritualmente saltellato al coro chi non salta è catanese – gli toccò l’esonero giusto all’indomani di un derby non vinto contro il Catania. Che lo costrinse a partire dalla Sicilia portandosi dietro – più o meno come oggi sembra accadere a Genovese – l’antipatia bipartisan dei vecchi tifosi traditi e di quelli nuovi che non era riuscito a conquistare.
Ma Genovese, si dirà, nel Pd non era mica uno di passaggio: tanto che ne è stato, come si è detto, segretario regionale. Ebbene? Forse che Pietro Lo Monaco, che negli anni migliori della serie A è stato braccio, mente e voce del Catania, non è passato proprio al Palermo dopo aver litigato con Pulvirenti? E pazienza se è durato poco, il rapporto con Zamparini. Tanto che Lo Monaco ha finito per accasarsi presso un’altra storica rivale dei rossazzurri, e cioè il Messina.
Ma basta così: se sappiamo tutti, in realtà, che non si può leggere quel gioco mercenario chiamato calcio con i nostri ingenui occhiali di tifosi, chi è che ancora se la sente di inforcare quegli occhiali per leggere il gioco della politica? Chi riesce ancora a sventolare le bandiere delle vecchie appartenenze, quando i colori delle squadre in campo sfumano verso i più improbabili ossimori cromatici? Chi può appassionarsi a un derby elettorale, se entrambe le squadre che lo disputano indossano ormai inguardabili maglie di colore rosa-azzurro?
Niente: se proprio ci piace appassionarci a dispute tra storici rivali, scegliamone altre con basi più solide. Come quella – combattuta nella terra di confine tra la teologia e la rosticceria – che oppone ancora catanesi e palermitani circa la questione del sesso degli arancini. Disputa che filologi assai più accorti di me hanno definitivamente risolto – con buona pace dei cugini di Palerma – in favore della versione catanese del termine. Che vuole l’arancino declinato al maschile. Come sempre è stato e come è giusto che sia.
Ma no: mi dicono adesso che, sui banconi di un antico e noto bar del centro catanese, è comparsa – al femminile – la scritta arancine. Al femminile. A Catania. Cose di pazzi.
E poi c’è ancora gente che si sorprende di Genovese.