Birmania, una rivolta on line

Indubbiamente, rispetto alla rivolta del 1988, che fu soffocata nel sangue con oltre tremila morti, e di cui il mondo rimase all’oscuro, questa volta i cortei dei monaci, lo schieramento delle forze dell’ordine, le cariche della polizia, alcune uccisioni (quella del fotografo giapponese fra tutte) sono state visibili anche e soprattutto grazie alle riprese di cronisti improvvisati, spesso gli stessi manifestanti, che hanno sfidato il rischio di arresti e violenze per raccogliere il materiale e riversarlo poi su Internet. Un esempio estremo del destino del giornalismo preconizzato dai cantori del “citizen journalism”: i manifestanti, un tempo oggetti passivi dell’informazione diventano soggetti attivi, annullando il ruolo di mediazione del reporter “tradizionale”.

Poi però gradualmente il regime ha preso le misure, riuscendo a soffocare nel giro di alcuni giorni sia le manifestazioni sia le comunicazioni. Oggi ormai dalla Birmania trapela ben poco; il paese è tornato ad essere in larga misura un buco nero dell’informazione.

Non solo; è vero che Internet ci ha consentito di sapere e vedere molto, contribuendo a sollevare un’ondata di sdegno internazionale; ma è anche vero che le immagini e le fotografie filtrate fino a noi avevano un carattere fortemente frammentario e parziale. Secondo molte testimonianze, l’Occidente ha potuto vedere solo una minima parte della sanguinosa repressione che ha stroncato le manifestazioni. E rapidamente la Birmania sta ri-scivolando verso il fondo dell’attenzione mediatica italiana e internazionale.

Se dunque dalle vicende birmane si possono trarre indicazioni sul futuro del giornalismo, sembra evidente che esse hanno dimostrato in modo concreto come un grande contributo di denuncia e “disvelamento” di certi eventi possa venire da video e testimonianze prodotti da cittadini- reporter (i quali peraltro sono “parte in causa” e per questo, a rigor di deontologia, vanno considerati con il dovuto senso critico), ma che l’informazione non può certo esaurirsi nella loro sommatoria. Innanzitutto, anche il flusso del web, in certe condizioni, può essere interrotto o quanto meno amputato e contenuto (anche, come è stato fatto, limitando l’accesso di potenziali testimoni sui luoghi dove si consumano gli eventi più tragici).

Inoltre, perché si passi dal livello della testimonianza, magari emotivamente efficace ma episodica e volatile, a quello dell’informazione coerente e “duratura”, appare indispensabile (forse persino più indispensabile di prima), che giornalisti “professionali”   compiano una sintesi ragionata dei frammenti informativi prodotti “dal basso”, li compongano in un flusso narrativo coerente e articolato, li corredino di informazioni di contesto che li rendano significativi e consentano una visione organica.

Bisogna infine evitare il rischio (attualmente ancora lontano, ma reale in prospettiva) che i canali mediatici si “abituino” ad alimentarsi da Internet, subendo passivamente le ondate di materiale che la rete riversa agetto continuo. Affinché   la Birmania non ricada nel buio, ora che le rivolte sembra siano state sedate e i cavi di Internet “interrotti”, servirebbero chiaramente scelte editoriali deliberate e consapevoli da parte dei media tradizionali, unici depositari di una funzione attiva e sistematica di ricerca delle notizie.

Indagare, denunciare, riportare, con costanza, capacità di indagine, competenza e autonomia restano doveri essenziali e imprescindibili del giornalismo, che trascendono (e integrano)   le capacità, pur enormi, del web. Altrimenti   Internet, con i suoi fiotti di informazione ricchissimi ma caotici, inconstanti e incontrollati, può diventare qualcosa di molto negativo: un feticcio e un alibi.


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