Restano in carcere le due donne accusate di aver dato fuoco a una 26enne tra via Capuana e via Ventimiglia, a Catania, lo scorso giovedì. «L’elevata spregiudicatezza e crudeltà manifestate inducono a ritenere che altre misure meno afflittive, come gli arresti domiciliari, anche con presidio, sarebbero inidonee», secondo la giudice per le indagini preliminari del […]
Tentato omicidio a Catania, le due donne restano in carcere. Ancora in ospedale la 26enne ustionata, già nuora del boss Mazzei
Restano in carcere le due donne accusate di aver dato fuoco a una 26enne tra via Capuana e via Ventimiglia, a Catania, lo scorso giovedì. «L’elevata spregiudicatezza e crudeltà manifestate inducono a ritenere che altre misure meno afflittive, come gli arresti domiciliari, anche con presidio, sarebbero inidonee», secondo la giudice per le indagini preliminari del Tribunale etneo che ne ha convalidato il fermo. L’accusa nei confronti di Rosa Alessandra Gennamari e di Agatina Vitanza, entrambe 42enni, è di tentato omicidio volontario aggravato dai futili motivi – una discussione di gelosia tra ragazzine parenti delle due – e la premeditazione dell’essersi procurate benzina e accendino, oltre all’aver chiesto l’aiuto di altre persone. A fare le spese della lite sono state altre due donne: la 26enne Giusi Scalogna, già moglie di Matteo Mazzei, figlio del boss dell’omonimo clan Sebastiano Nuccio Mazzei, e sua madre Giusi D’Arrigo. La prima è «ancora in pericolo di vita» e si trova ricoverata nel reparto di Rianimazione dell’ospedale Cannizzaro, con ustioni diffuse al volto, capelli, collo e metà corpo sinistro. La seconda ha invece riportato ferite al braccio destro, giudicate guaribili in dodici giorni, e dovute al tentativo di spegnere le fiamme che avvolgevano la figlia.
La decisione del tribunale arriva dopo aver ascoltato i numerosi testimoni – compreso un passante che avrebbe prestato i primi soccorsi – e le protagoniste della vicenda: racconti a volte lacunosi o contradditori che non permettono ancora di definire chi, tra le due indagate, abbia lanciato il liquido e appiccato il fuoco, ma che ricostruiscono la dinamica della lite. Cominciata per telefono – tramite messaggi e chiamate – tra due minorenni per una questione di gelosia: una ragazza – attuale fidanzata del giovane conteso – e un’altra coetanea, parente delle vittime, che dal ragazzo in questione aveva ricevuto una calza di dolciumi per l’Epifania, scatenando la gelosia retroattiva dell’attuale fidanzata. Un litigio degenerato nei toni – «Ti rompiamo il culo, ti spacchiamo la testa», «vengo e te la faccio pagare», alcune delle frasi raccontate ai magistrati – fino a far decidere alla prima ragazzina di andare sotto casa della seconda, accompagnata da altre donne, a bordo di un’auto e di una vespa. Lì avrebbero iniziato a insultare l’altra giovane protagonista della lite e alcune sue parenti. Situazione poi degenerata quando «una delle donne avrebbe lanciato della benzina all’indirizzo delle sorelle e dei loro familiari – ricostruisce la gip – La stessa o un’altra persona avrebbe poi lanciato un accendino, appiccando le fiamme».
La storia, però, sarebbe cominciata ancora prima, intorno alle 15 dello stesso giorno dell’aggressione. Quando la ragazza – attuale fidanzata del giovane attorno a cui ruota la vicenda – dice lei stessa ai magistrati, era andata in piazza Stesicoro per incontrare un’amica – parente di una delle indagate – per discutere con lei i problemi legati all’altra giovane. Durante quel pomeriggio si sarebbero svolte le telefonate di insulti tra le due, finendo per coinvolgere anche l’amica e, a cascata, le rispettive famiglie. È così che, secondo i racconti, Vitanza avrebbe raggiunto le due giovani in piazza Stesicoro per poi portarle sotto casa della rivale, insieme ad altre donne. Ma non prima di aver fatto alcune soste: la prima presso i chioschi di via Umberto per recuperare un’amica di rinforzo e la seconda in piazza Bovio dove, secondo gli investigatori, sarebbero stati acquistati sia l’accendino utilizzato per l’aggressione che la bottiglia di benzina. Le telefonate litigiose sarebbero intanto continuate anche durante il tragitto – «Ti metto la testa al posto dei piedi», una tra le tante minacce – ma avendo per protagoniste alcune delle donne adulte dei due gruppi. Le stesse che si sarebbero affrontate appena arrivate sotto casa dell’altra giovane protagonista, intorno alle 18, trasformando la discussione in una lite con successivo ferimento.
Una volta sul posto, ad aprire la porta sarebbero state proprio le due vittime: secondo i loro racconti, intenzionate a tornare a casa evitando la discussione imminente. Quando stavano per uscire, però, si sarebbero trovate davanti il gruppo antagonista, composto «da circa 10-15 donne». Comincia lì una discussione che, secondo i racconti di una delle vittime, sarebbe degenerata fino al «Ora vi pigghiu a tutti pari a foco»: promessa la cui autrice non è ancora chiara, ma comunque mantenuta con il lancio della benzina. «Io, anche se ero in preda al panico, cercavo di spegnere le fiamme che avvolgevano mia figlia – racconta Giusi D’Arrigo – tamponandola col mio corpo, provocandomi anch’io delle ustioni e utilizzando una boccia d’acqua presente vicino la porta. Ricordo che le fiamme avvolgevano anche un veicolo parcheggiato. Dopo questo atroce gesto le donne si allontanavano a bordo di due veicoli».