A Partinico, dove l’agricoltura muore aspettando l’acqua della finanziaria di Crocetta

di Giuseppe Casarrubea

Non è necessario avere la scienza infusa per capire cosa si nasconde dietro i giochi di palazzo da cui dipende la vita di molte persone e famiglie. Una scelta non vale l’altra e, se ci si viene a trovare in una palude, la colpa non è della palude ma di chi ha messo un cartello stradale indirizzando le persone ad impantanarsi.

Nel nostro caso il pantano è la grande crisi in cui è entrato da tempo il valore del lavoro e, collegato ad esso, il concetto di sviluppo. La Sicilia si muove sul binario dell’emergenza, al rimorchio delle concessioni dello Stato, che alla fine cede per sanare la cattiva politica e lenire la sicumera parlamentare dei nostri “onorevoli” regionali. Non è che a Roma sono tutti galantuomini, ma noi siamo buoni per le chiacchiere e per sollevare pennacchi di fumo, esperti nel non dare certezze e speranze al futuro. Attenzione, è una storia che dura dal tempo dei viceré, quando il Parlamento era fatto da baroni che, se li gradivano, li lasciavano al loro posto, altrimenti li cacciavano via a pedate nel sedere come successe al viceré Fogliani.

Calano tutti nei loro feudi territoriali per le elezioni regionali, le più inquinate dal sistema clientelare, e spariscono per sempre negli anni successivi. Tranne poi a leggere che sono stati incriminati. Perché un deputato senza “nei” sarebbe proprio brutto, visto che il “neo” era un vezzo salottiero delle aristocrazie della capitale nel Settecento e nell’Ottocento. E anche nei secoli ancora più lontani. Tutti ora hanno lo stesso vizietto. Nessuno escluso. E il vizio si è trasformato in virtù.

A monte ci sono le clientele e i carrozzoni dell’onorevole Tizio, o dell’onorevole Caio. Il loro insieme forma una spinta sul governatore, la cui collocazione oggi è analoga al ferro da forgiare nella fucina dove si battono indefinibili oggetti tra incudine e martello. Oggetti un po’ incandescenti, per il fuoco e la battitura, ma di fatto senza forma e senza identità. Manca il vero mastro artigiano che ci metta anima e ingegno.

Prendiamo in considerazione un esempio fresco, di qualche giorno fa: l’assestamento del Bilancio regionale per l’anno 2014. Materia di attualissima discussione. Osserviamo l’errore concettuale. Si assesta ciò che sta consolidandosi, ma quando tale fenomeno diventa manovra correttiva, variazione di bilancio, consuetudine, il discorso cambia. Ed è il nostro caso.

Il pretesto del ragionamento ce lo da il presidente della Commissione Bilancio e Finanze dell’Ars, Nino Dina. Parla senza peli sulla lingua e lo dice apertamente. A modo suo. Si tratta di definire stanziamenti di bilancio nuovi, di utilizzare risorse dello Stato conseguenti all’accordo del 5 giugno 2014, tra il Ministro dell’Economia e delle Finanze e la Regione siciliana. Pare che ci sia un accordo verbale, politico, tra Stato e Regione. In parole più chiare, lo Stato concede 500 milioni alla Sicilia, ma in cambio questa tace e mentre tace e riceve elemosine, tappa i suoi buchi, e come una grande prostituta gode, o finge di godere. Come forse piacerebbe meglio dire a Pierangelo Buttafuoco.

La Sicilia di sempre: dominata e taciturna. Festa, farina e forca erano i grandi bisogni del popolo di una volta. Ma la regola non è per niente cambiata. Di ribellioni sociali, di sane e salutari indignazioni neanche a parlarne. Hai problemi? Adotta un onorevole. Eppure si tratta di questioni nodali, di grande interesse sociale, come “il ricovero dei minori, le comunità alloggio per disabili psichici, la forestazione e la prevenzione agli incendi (sic), i Consorzi di bonifica, l’Esa, la gestione degli impianti idrici, […] i contratti di filiera e di distretto e le nuove iniziative per favorire lo sviluppo”.

In altre parole: la gestione di alcune emarginazioni sociali affidate non alla cura degli enti pubblici, ma all’incerto ed equivoco volontariato di privati laici e cattolici, la politica del rimboschimento che nessuno sa quanti ettari di foresta in più ha prodotto negli ultimi decenni e quanta ne è stata distrutta, la gestione delle acque e degli impianti, le iniziative di sviluppo che nessuno ha mai saputo in che cosa consistono. Con buona pace dell’Autonomia virtuale della Sicilia. Che è meglio di niente.

Altra caratteristica di questa Sicilia imperitura e subalterna è l’uso dell’Autonomia come arma per stipulare patti scellerati, per sancire eterne sudditanze, per mettere lo Stato nella condizione di essere solo lui il garante della risoluzione dei gravi e drammatici problemi che affliggono l’isola: la disoccupazione, i bassi redditi, il pecariato e l’incertezza del futuro, l’uso della Sicilia per finalità militari, i Muos, e chi più ne ha più ne metta.

Il caso della gestione delle acque è emblematico, come la scomparsa dei Consorzi di bonifica che da una decina sono adesso solo due. Tutta salute per i risparmi degli stipendi dei vari direttori. Risultato: la stagione irrigua quest’anno a Partinico è cominciata a giugno e, se ad agosto non sarà approvato lo strumento finanziario della Regione, ben 49 operai del Consorzio di Palermo e provincia si troveranno in mezzo a una strada già tra qualche giorno. Con il risultato che i produttori di Partinico potranno espatriare. A meno che non vivano di altre risorse.

In ogni caso, con la chiusura della campagna irrigua questi operai, a ottobre, saranno licenziati dal commissario unico del Consorzio della Sicilia occidentale, Fabrizio Viola. Per la Sicilia orientale il nuovo commissario unico, Francesco Petralia, non pare navighi in acque migliori.

C’è da chiedersi: come si può vivere con la mannaia sempre sopra la propria testa? E ancora, questi due burocrati hanno poteri di autonomia reale? Senza quattrini da gestire e con pochi dipendenti da governare valgono quanto un asso di coppe. L’assestamento di bilancio risolverebbe perciò la situazione consentendo la riassunzione dei precari. Un sospiro di sollievo. Ma le cose non stanno così.

Aboliti i Consorzi di bonifica si sono creati, infatti, due mostri, che forse tra di loro neanche comunicano, anche se hanno problemi analoghi da risolvere. Si vedano le “proporzioni politiche” dell’impiego: il Consorzio di Agrigento ha circa 300 dipendenti, quello di Palermo appena 153. Si sente o no il respiro cuffariano? La forza operaia è stagionale e si compone di 72 elementi. Ma i loro capi, burocrati, capetti e generali sommano in tutto a 81 unità. Capi senza la forza viva di un’azienda, che vivono di carte, comandi, signorsì, sudditanze politiche. Un apparato parassitario incompetente che a tutto pensa tranne che a formare la manodopera, aggiornarla sul piano delle tecnologie e delle relazioni sociali, a costruire il senso collettivo dello sviluppo, come succede in molti altri Consorzi dell’Italia e dell’Europa.

La realtà più grande del Consorzio occidentale è la piana di Partinico, su cui nel 1952 cominciò a lavorare il sociologo triestino Danilo Dolci. Frutto di oltre sessant’anni di lotte e di costruzione del tessuto democratico. Oggi vandea della criminalità organizzata, sede dell’individualismo più sfrenato. Chi si alza per primo la mattina detta legge. “Area 51” di Cosa Nostra, l’ha definita Francesco Del Bene, sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Palermo.

Fino agli anni ’90 la peculiarità del territorio era l’associazionismo produttivo nelle campagne. I proprietari di terra, coltivata per lo più a orto, vigneto, agrumeto, eleggevano i propri rappresentanti nel Consorzio che operava con un consiglio di amministrazione. L’acqua costava un terzo di oggi, e veniva assegnata con un programma scritto e firmato della stagione irrigua. Oggi, orti e agrumeti sono stati abbandonati. Specialità rare di limoni non esistono più (lunari, lumie, interdonati), perché la mafia delle colture orticole e agrumicole ne impedisce l’esistenza, non attribuendo alcun prezzo al prodotto. E il discorso vale per tutti i prodotti agricoli.

Eppure, dei 13.000 ettari che dovrebbero essere irrigati dal Consorzio di Palermo, 7.000 sono a Partinico. Gli altri nell’entroterra agricolo o lungo la costa orientale di Palermo (Termini Imerese, Campofelice Roccella, Altavilla Milicia, Polizzi, San Giuseppe Jato, ecc.). Gli addetti a Partinico, tra tempo determinato e stagionali, sono solo venti. Anche questo dato ci dice che Partinico, che vanta il primato dei primi vigneti impiantati in Sicilia nel secolo XV°, non esiste neppure nel pensiero politico di quelli che se ne stanno a Palazzo dei Normanni.

E i sindacati? Dio solo sa che fanno. Aspettano l’approvazione della finanziaria. Intanto i produttori che hanno visto aprirsi la stagione irrigua a giugno, rischiano di non avere più acqua già dai prossimi giorni e di vedere le loro terre disseccarsi, o che vadano in fumo le loro speranze. Come accadde al tempo in cui la fillossera si mangiò i vigneti, e intere famiglie fecero le valigie e se ne andarono all’estero.

Forse qualcuno ha pensato di scatenare la guerra civile. Perché non è tollerabile che il piccolo produttore chiuda la sua impresa mentre la potente lady alcool del paese pare che abbia rapporti privilegiati con l’Assessore regionale all’Agricoltura, e ha tutta l’acqua che le serve. Qualcuno ha mai controllato se e quanta acqua della diga consuma o se il contatore per i suoi impianti funziona?

In conclusione. Vince la Sicilia dei capetti e dei generali senza esercito. Perde solo chi lavora onestamente. La manovra finanziaria dell’Ars dovrebbe evitare le rivolte sociali di forestali, produttori e operai dei Consorzi di bonifica. E’ una proposta di sudditanza e pacificazione tra Renzi e Crocetta. Sarà sufficiente a risolvere i problemi con un semplice scambio di concessioni?

Pensiamo proprio di no, perché niente viene risolto alla radice e in questa terra del gattopardo, ormai restano solo le iene.

Questo articolo è tratto dal blog di Giuseppe Casarrubea


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