Grande conoscitore della sicilia e dei suoi misteri, si e' spento stamattina colpito da un infarto
E’ morto Sandro Musco, la mente pensante del Governo Nicolosi
GRANDE CONOSCITORE DELLA SICILIA E DEI SUOI MISTERI, SI E’ SPENTO STAMATTINA COLPITO DA UN INFARTO
La memoria ritorna alla fine degli anni ’80, quando il professore Sandro Musco ricopriva il ruolo di consulente dell’allora presidente ella Regione siciliana, Rino Nicolosi. Non c’era argomento – disegno di legge, decreto presidenziale e quant’altro – che non passasse dalle sue mani. Dietro ogni decisione del presidente Nicolosi – che era un presidente piuttosto ‘decisionista’ – c’era, quasi sempre lui, il professore Musco.
Uomo di rara intelligenza e di straordinaria preparazione, Musco era il consulente per antonomasia. “E’ vero – mi disse una volta, quando lo intervistai per l’inchiesta Sicilia, un quindicinale che, con alcuni amici e amiche, davamo alle stampe nella seconda metà degli anni ’90 – Rino Nicolosi mi ascoltava quasi sempre. Ma una volta non mi ha ascoltato. E secondo me ha fatto male”.
Allora non volle che riportassi questo suo sfogo. Nicolosi era vivo e ci sarebbe rimasto male. Mi racconto che lui, dopo l’ennesima crisi di Governo – quando l’Aula, in una notte burrascosa, elesse presidente della Regione il repubblicano Salvatore Natoli, che poi non accettò l’incarico – aveva consigliato a Nicolosi di ritirarsi. ‘Lasciali nella palude’: questo, ci raccontava, era il suo consiglio. Ma Nicolosì non lo seguì. E tornò a farsi rieleggere presidente della Regione. Perché allora i presidenti li eleggeva Sala d’Ercole.
Sandro Musco era un personaggio molto particolare. Per certi versi unico. A differenza di Nino Scimemi – altro stretto collaboratore dell’ex presidente Nicolosi – che alla fine era un po’ filosofo, anche se pure lui dotato di straordinaria preparazione e altrettanto straordinaria conoscenza di fatti, personaggi e cose, Musco, benché filosofo per lavoro (insegnava Storia della filosofia medievale all’Università di Palermo), era estremamente pragmatico.
A differenza della Regione di oggi – ormai sostanzialmente in default e con poche idee – quella di Nicolosi e Musco era una Regione che programmava e agiva, spesso in modo temerario, ma sempre con una visione politica strategica.
Gli anni ’80, per la Sicilia, sono stati quelli della grande sete. Pioveva pochissimo. E le dighe e gli acquedotti realizzati fino ad allora erano, spesso, “monadi senza finestre”. Nicolosi e Musco programmarono una serie di grandi opere idriche per completare e interconnettere dighe e acquedotti in un unico sistema.
Furono, in parte, anche fortunati. Il 1986, infatti, è l’anno in cui alla vecchia Cassa per il Mezzogiorno, posta in liquidazione qualche anno prima, si sostituisce l’Agenzia per il Mezzogiorno. Non fu un cambiamento di sola immagine. Anzi. (a destra, foto di Rino Nicolosi tratta da webalice.it)
La Cassa per il Mezzogiorno pensata da Pasquale Saraceno centralizzava programmazione e realizzazione delle grandi opere pubbliche nel Sud. I progetti venivano ‘calati dall’alto’, certe volte con cognizione di causa, altre volte senza una logica, dando vita a quelle che, allora, vennero battezzate le “Cattedrali nel deserto”.
Con la legge nazionale n. 64 del 1986 cambiava tutto: sarebbero stati gli enti locali – a cominciare dalle Regioni – a programmare gli interventi nel Sud. Iniziava la programmazione “dal basso”.
Il Governo Nicolosi – questo va detto per onestà di cronaca – è stato uno dei pochi Governi delle regioni meridionali di quegli anni a credere nella programmazione: programmazione – lo ricordiamo – che era stata al centro dell’esperienza di Piersanti Mattarella, interrotta bruscamente con il suo assassinio il 6 gennaio del 1980.
Quell’esperienza, in verità, fu segnata anche da limiti. Forse il più grande limite, considerato che siamo in Sicilia, nel regno della mafia, è stato quello di non spezzare il legame tra grandi gruppi economici del Nord Italia e mafia che si era creato già negli anni ’60, ’70 e nei primi anni ’80 all’ombra del ‘consociativismo’.
Succedeva che i fondi della Cassa per il Mezzogiorno – che non erano pochi, anche se non sempre ‘aggiuntivi’ rispetto agli interventi ordinari dello Stato – venivano spesso intercettati dai grandi gruppi economici nazionali, che scendevano a patti con le varie forme di criminalità organizzata, dalla Sicilia alla Calabria, dalla Campania alla Puglia. Le collusioni tra mafia e imprenditoria, nel Sud, si cementano in quegli anni.
Ci si sarebbe aspettati un’attenzione maggiore, rispetto a un tema così delicato. Invece i primi a non essere attenti a questi fenomeni erano proprio i ‘romani’. Che, anzi, imponevano spesso al Sud – e soprattutto alla Sicilia – gruppi e affari con certi ambienti sotto l’egida del parastato. Argomento, questo, che non è mai stato trattato. Nemmeno nel celebre “Rapporto dei Ros” su mafia e appalti in Sicilia redatto tra la fine degli ani ’80 e i primi anni ’90.
Detto questo, Musco è stato un protagonista di primo piano di una stagione nella quale, di certo, non sono mancate le ombre. Ma nella quale non sono nemmeno mancate le luci di una politica siciliana che, nonostante i tanti problemi, sapeva anche volare alto.
Musco amava citare il democristiano Amintore Fanfani. Con il quale era lontanamente imparentato. A Fanfani si poteva rimproverare tutto: il malo carattere, atteggiamenti da prima donna, la caparbietà che spesso sfociava nell’insistenza senza sbocchi: ma non gli è mai mancato il genio della politica. Così come al professore Musco, che del leader della Dc si sentiva un po’ allievo, non è mai mancata la capacità di ‘inventare’ scelte politiche e amministrative spesso temerarie, ma mai banali.
Lo possiamo dire: ci ha lasciato un grosso personaggio.