Luigi Magni, regista del “controrisorgimento”

di Gabriele Bonafede

Scomparso ieri mattina all’età di 85 anni, Luigi Magni lascia un patrimonio culturale che sarebbe bene rivedere e riscoprire alla luce dei grandi progressi che si sono fatti dai tempi dei suoi primi film a oggi nella lettura del processo di unificazione italiana del secolo XIX.

Rivedendo “‘o Re”, (del 1989) ma anche gli altri suoi grandi film a partire dalla “trilogia” ambientata nello Stato pontificio (“Nell’anno del Signore” del 1969, “In nome del Papa re” del 1977, e in “In nome del popolo sovrano” del 1990), si può notare quanto Magni abbia veramente capito ciò che voleva dire Tomasi di Lampedusa sul “risorgimento” nel Mezzogiorno e in Sicilia. L’ironia, la farsa, il sottile gioco del non-detto sono sempre presenti nel percorso coerente di un grande regista, di un grande artista.

Quella di Magni è stata una critica elegante e profonda a ciò che ci insegnavano nei libri di storia e a scuola. Fu, infatti, uno dei primi a confrontarsi con il risorgimento senza falsi miti, ma con storie emblematiche che contribuirono a far riflettere sui cliché della storiografia ufficiale. Sarebbe utile rileggere l’opera di Gigi Magni su questi temi, sugli aspetti, forse ancora oggi nascosti ai più, della prospettiva meridionalista.

Nei suoi film è chiaro il racconto della scollatura tra la realtà sociale e popolare da un lato e il processo di unificazione dall’altro. In particolare, in “’o Re”, Magni afferma in maniera evidente che la conquista del Regno delle Due Sicilie fu un’annessione sabauda favorita dagli opportunismi personali e la passività della classe dirigente meridionale.

Nello stesso film la dimensione della rivolta meridionale a seguito dell’annessione piemontese chiarisce i limiti del “moto” risorgimentale: l’ex-re Francesco di Borbone (in una delle interpretazioni più belle di Giancarlo Giannini) è in grado di capire che il cosiddetto “brigantaggio” è una disperata rivolta di popolo indipendente dalle velleità del proprio casato. Con eleganza e senza indugiare più di tanto sugli orrori della repressione piemontese nel Mezzogiorno, ma solo evocandone la disumana ferocia, il regista racconta ciò che va raccontato. Così facendo, Magni colloca quel passaggio storico in una prospettiva reale dipingendo il “risorgimento” in maniera non oleografica o agiografica.

Luigi Magni

A conti fatti, con “Nell’anno del Signore” (1969), il maestro romano realizza il film storico e “post-neorealista” (se così si può dire) allo stesso tempo, con annessi e connessi. E lo fa con un trattamento non mitizzato ma d’osservatore ironico: capace d’esaltare la cultura della Roma del Mezzogiorno, e del Mezzogiorno nel suo complesso panorama.

Quella di Magni è dunque una Roma papale come parte del Mezzogiorno piuttosto che una Roma capitale o del Mezzogiorno “garibaldino”, denunciando come quest’ultimo non sia mai esistito realmente se non quale tradimento dei veri rivoluzionari e meridionalisti, tuttavia presenti, individualmente, tra gli originari mille (ad esempio in “’o Re”) o tra i carbonari (ad esempio in “Nell’anno del Signore”).

Con Luigi  Magni uomo se ne va un pezzo della storia del cinema.  Luigi Magni regista rimane, e I suoi film sono ancora tra noi, patrimonio della Storia. 


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