Contro la pena di morte

di Lorenzo Ambrosetti

Nell’antichità classica e durante tutto il medioevo la pena di morte veniva considerata una misura normale per chi avesse infranto le leggi della tribù o della città.

Platone nelle ‘Leggi’ accoglieva in pieno la dottrina del contraccambio in forza della quale al malum passionis deve corrispondere il malum actionis, principio, che giunge intatto sino a noi nella concezione retributiva della pena.

Bisogna giungere all’Illuminismo per cambiare radicalmente rotta, ed in particolare a Cesare Beccaria, che per la prima volta si oppone alla pena di morte giudicandola non utile né necessaria.

Secondo Beccaria, che è il primo fautore della prevenzione generale, il fine della pena non deve essere la crudeltà, ma deve impedire al reo di fare ulteriori danni, sostenendo che l’infallibilità della pena è un deterrente maggiore per il soggetto criminale, cioè la sua certezza.

Nonostante il successo del libro di Beccaria – “Dei delitti e delle pene” – la pena di morte non solo no fu abolita nella maggior parte degli Stati, ma prima Kant e poi Hegel sostennero che essa dovesse ritenersi una misura necessaria, accogliendo in pieno la concezione retributiva per cui deve esserci corrispondenza perfetta tra delitto e castigo.

Oggi la pena di morte viene mantenuta soltanto in alcuni Stati del mondo. In ogni caso, viene inflitta solo per crimini molto gravi, come l’omicidio premeditato, e comunque con il riserbo che vuole eliminare inutili supplizi al condannato ed evitare assurde spettacolarizzazioni. Testimonianza, questa, che il libro di Beccaria ha mantenuto nei secoli un qualche validità.

Da quanto si è detto fino ad ora si può dire che siano sostanzialmente due le concezioni della pena. Una è quella retributiva che riposa sulla regola della giustizia come uguaglianza, nel senso che è giusto che chi abbia causato un male venga punito con un altro male altrettanto efficace. L’altra è quella preventiva secondo cui la funzione della pena è di scoraggiare il reo a commettere altri delitti della stessa indole.

La prima è una concezione etica; la seconda una concezione utilitaristica. In realtà, il dibattito è più complicato, perché vi sono almeno altre tre concezioni della pena.

La prima è la pena come espiazione. Questa concezione sembra apparentemente più favorevole all’abolizione della pena di morte, poiché per espiare bisogna continuare a vivere.

La seconda è quella dell’emenda. Questa concezione è assolutamente contraria alla pena di morte, perché presuppone che anche il più perverso dei criminali, con il tempo, possa redimersi.

La terza è quella della difesa sociale. Generalmente i sostenitori di questa concezione della pena sono abolizionisti, ma non per ragioni umanitarie quanto perché rifiutano il concetto di colpa che sta alla base della concezione retributiva, la quale trova la sua giustificazione soltanto ammettendo la libertà del volere.

Quale che siano le ragioni degli uni e degli altri, la pena di morte, come vigente oggi in alcuni Stati, è soltanto un crimine legale che si spera venga presto abolito.


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