UE amara per l’Italia: è ora di un referendum

“Dalla crisi si esce con più Europa”. “Serve una spinta per un’Europa politica”. Questi alcuni degli slogan che si sentono ripetere più spesso e che rispecchiano il punto di vista anche di quella parte dell’opinione pubblica che si considera “di sinistra”. Di una sinistra non massimalista, s’intende; ma socialdemocratica e riformista. E’ il bel pensare “politicamente corretto”. Personalità politiche degne del massimo rispetto, come Giuliano Amato ed Emma Bonino, pensano sia venuto il momento di rialzare le bandiere del federalismo europeo.

Amato e Bonino – almeno loro – sanno benissimo, però, che una cosa sono gli ideali politici coltivati da Altiero Spinelli; altra cosa è l’Unione Europea come si è venuta costruendo nel tempo. Con i suoi due Trattati fondamentali, riordinati dal Trattato di Lisbona. Quest’ultimo è stato firmato il 13 dicembre 2007 ed è entrato in vigore due anni dopo, nel dicembre del 2009.

Nulla viene ignorato dall’opinione pubblica italiana più dei contenuti della normativa comunitaria. Si comprende che non appassioni; però, purtroppo (per fortuna, direbbero forse i Federalisti), interagisce con il nostro diritto interno, lo modifica, ed incide in modo sempre più rilevante sulle nostre condizioni di vita.

Per i tanti smemorati, è utile richiamare rapidamente qualche fatto storico. L’euro è moneta circolante dall’1 gennaio 2002; ma l’individuazione degli Stati membri che avevano i requisiti per adottare la moneta comune europea come propria moneta, fu decisa durante la riunione del Consiglio Europeo del 3 maggio 1998. Quel Consiglio era presieduto dal Primo Ministro britannico, Tony Blair; una sorta di arbitro super partes, perché, allora come oggi, il Regno Unito non prendeva nemmeno in considerazione l’ipotesi di far parte dell’eurozona. Blair contribuiva a decidere, generosamente, per gli altri. L’Italia rientrò tra gli undici Stati membri selezionati. Aveva i requisiti? La regola che il debito pubblico non dovesse superare il 60 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) nazionale esisteva già allora ed avrebbe dovuto costituire parametro di valutazione.

In proposito, l’Italia veniva dal seguente percorso. Nel mese di settembre del 1992 (il terribile 1992!), la lira era uscita dal meccanismo di cambio europeo. La svalutazione della lira servì, in quell’occasione, a migliorare la bilancia commerciale italiana. Le nostre esportazioni all’estero furono agevolate dalla circostanza che i prodotti italiani costavano meno (per il deprezzamento della lira) dei prodotti concorrenti. Nel 1994 il rapporto tra debito pubblico e Pil nazionale arrivò al peggior risultato storico in assoluto: 121,8 % rispetto al Pil.

Nel mese di novembre 1996, dopo un intervallo lungo quattro anni, l’Italia fece rientro nel meccanismo di cambio europeo.

Nel 1998, quando il Consiglio Europeo adottò le sue decisioni sulla moneta comune, né l’Italia, né molti altri Stati membri selezionati, rispettavano il parametro del rapporto fra debito pubblico e Pil. Si scelse un comodo espediente, certamente non improntato ad una concezione rigorista, in modo da aggirare il problema: il requisito della “sostenibilità della situazione della finanza pubblica” si considerò soddisfatto perché nei confronti dell’Italia non era stata formalmente aperta una procedura per “disavanzo pubblico eccessivo”. Lo stesso criterio fu adottato per i tanti altri Stati membri che, da questo punto di vista, si trovavano nelle medesime nostre condizioni. In altri termini: il dato formale (non c’è una procedura avviata), prevalse sul dato sostanziale (non sussistono i requisiti richiesti).

La verità storica è che con l’euro si partì molto alla garibaldina, per generoso volontarismo, buttando il cuore oltre l’ostacolo, come si suole dire in questi casi. Più Stati importanti aderivano, più l’eurozona nel suo complesso avrebbe avuto “peso” nei rapporti internazionali: questo il ragionamento, tutto politico e per niente economico, che allora prevalse.

Il deciso mutamento di indirizzo politico dell’Unione Europea data dal 2010, sotto l’incalzare della crisi finanziaria e poi economica internazionale. Presso il Consiglio viene costituito un apposito gruppo di lavoro, presieduto dallo stesso presidente Van Rompuy. La Commissione, da parte sua, il 30 giugno 2010, invia alle altre Istituzioni dell’Unione una comunicazione titolata: “Rafforzare il coordinamento delle politiche economiche per la stabilità, la crescita e l’occupazione. Gli strumenti per rafforzare la governance economica dell’UE”. In quel lungo ed articolato documento si trovano, in nuce, tutti i contenuti fondamentali della legislazione successiva.

L’opinione pubblica italiana sta ora, lentamente, cominciando a prendere coscienza del fatto che il trattato cosiddetto del “Fiscal compact” (ancora da ratificare) comporta pesantissime conseguenze e presenta seri problemi di sostenibilità economica per un Paese come il nostro. Quel che non si sa è che il “Fiscal compact” si limita a rendere più cogenti, per gli Stati membri dell’eurozona, regole che sono già enunciate in regolamenti vigenti. Bisogna fare riferimento, in particolare, ai regolamenti di riforma del Patto di stabilità e crescita, del novembre 2011. Il regolamento (UE) n. 1175/2011, del 16 novembre 2011, è stato approvato con la procedura legislativa ordinaria; il che significa che è stato esaminato ed approvato anche dal Parlamento Europeo. Nelle considerazioni in premessa, viene enunciato il seguente obiettivo: «E’ opportuno “imporre” un percorso più rapido di avvicinamento all’obiettivo del bilancio a medio termine per gli Stati membri con un livello di indebitamento superiore al 60 % del Pil o che presentino rischi considerevoli di sostenibilità complessiva del debito». Il Parlamento Europeo, quindi, concorda sul fatto che si debba somministrare una terapia di rigore finanziario tanto più esigente, quanto più uno Stato membro versi in condizioni di difficoltà.

L’altro regolamento riguarda il cosiddetto “braccio correttivo” del Patto di stabilità e crescita, ossia quello che stabilisce la procedura per deliberare ed applicare possibili sanzioni agli Stati membri inadempienti. Il regolamento (UE) n. 1177/2011 del Consiglio, dell’8 novembre 2011, stabilisce, tra l’altro, come si debba interpretare la disposizione dell’articolo 126, paragrafo 2, lettera b), del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE): «Qualora ecceda il valore di riferimento, si considera che il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo (Pil) si stia riducendo in modo sufficiente… se il differenziale rispetto a tale valore è diminuito negli ultimi tre anni ad un ritmo medio di un ventesimo all’anno come parametro di riferimento, sulla base delle modifiche registrate negli ultimi tre anni per cui sono disponibili dei dati». E’ lo stesso criterio adottato dal Trattato sul “Fiscal compact”.

L’analisi dovrebbe essere allargata a tanti altri atti del diritto dell’Unione Europea. Per tutti, bisogna ricordare almeno il trattato che istituisce il “Meccanismo Europeo di Stabilità”. L’acronimo, in italiano, è MES, mentre in lingua inglese è ESM, che significa “European Stability Mechanism”. Questo nuovo strumento sostituirà il vecchio “Fondo salva Stati”. Il trattato istitutivo del meccanismo dell’ESM è complementare con il “trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria”, ossia con il “Sia detto senza malanimo. C’è da chiedersi se i nostri governanti, Berlusconi, Tremonti, Monti, Grilli, abbiano ben difeso gli interessi dell’Italia nei confronti delle Istituzioni dell’Unione Europea. Chi non si impegna a rispettare il secondo, è escluso dalla possibilità di avvalersi del primo.

Sia detto senza malanimo. C’è da chiedersi se i nostri governanti, Berlusconi, Tremonti, Monti, Grilli, abbiano ben difeso gli interessi dell’Italia nei confronti delle Istituzioni dell’Unione Europea. C’è da chiedersi se i rappresentanti italiani al Parlamento Europeo abbiano ben interpretato il proprio ruolo. Al di là dei discorsi da caffè su Altiero Spinelli ed il federalismo europeo.

In tutti i nostri rappresentanti, probabilmente, è prevalsa la seguente logica: di fronte ad una crisi economica internazionale, ci si può proteggere meglio stando sotto l’ombrello protettivo dell’Unione Europea. Si può anche comprendere.

Il problema ora è di capire se quanti hanno concepito e fatto approvare le normative ultra-rigoriste intendano, effettivamente, operare a difesa dell’Unione Europea. Ovvero, se il retropensiero non sia quello di tendere ad una comunità di Stati molto più snella, via via alleggerita dalla “zavorra”. La richiesta di politiche insostenibili dal punto di vista finanziario sarebbe un modo per spingere fuori un po’ di Stati membri. Temo che non soltanto la Grecia, ma anche noi potremmo fare la fine della “zavorra”. Bell’europeismo! Si tratta di una logica inaccettabile per un minimo senso di dignità nazionale. Quest’ultima argomentazione alla quale personalmente sono molto sensibile, comprendo possa lasciare freddi altri che sentono meno l’appartenenza italiana.

Tutti i discorsi sull’esigenza di “più Europa” si infrangono contro uno scoglio che, al momento, penso sia insuperabile: le classi dirigenti degli Stati membri che si sono avvantaggiati dell’Unione Europea così come è stata finora (ad esempio, la Germania), non accetteranno mai di sottostare ad una diversa politica, che risulterebbe maggioritaria perché votata prevalentemente da elettori di altri popoli con tradizioni differenti (Greci, Spagnoli, Italiani, Irlandesi, Portoghesi, Ciprioti, Maltesi, Francesi, eccetera).

Ricordo a me stesso che il progetto di Costituzione Europea fu respinto dalla Francia, con il referendum del 29 maggio 2005, e dai Paesi Bassi, con il referendum dell’1 giugno 2005. Eppure, Francesi ed Olandesi fanno parte di due dei sei Stati fondatori delle Comunità Europee. La storia dell’Unione offre numerosi esempi di trattati prima sottoscritti e poi non ratificati. Fin dalle prime fasi del processo di integrazione europea, alcuni Stati membri si sono lasciati le mani libere; prevedendo che determinati trattati dovessero, o potessero, essere ratificati mediante referendum popolare confermativo.

L’Italia non ritiene di utilizzare lo strumento del referendum popolare che, soltanto evocato in passaggi cruciali come questo, darebbero maggiore forza contrattuale al Governo nei confronti delle Istituzioni dell’Unione. C’è una sorta di complesso d’inferiorità, di sudditanza psicologica, con il quale bisognerebbe cominciare a fare seriamente i conti.

 

 


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