Esordio solista per il pluristrumentista e produttore inglese, negli ultimi anni trapiantato a Catania per collaborare col "nostro" Cesare Basile
Once Upon a Little Time: John Parish ci mette la voce
JOHN PARISH ONCE UPON A LITTLE TIME
MESCAL
2005
In copertina un vulcano che boccheggia dellabbondante fumo nero. LEtna? Probabile.
Chissà quante volte John Parish ha potuto vedere, durante il suo soggiorno a Catania, lEtna sbuffare in quel modo, lui che ha trasformato la città etnea nella sua seconda dimora. Così, anche se la cover del suo vero primo disco solista Once Upon a Little Time, non rappresentasse realmente il vulcano siciliano, ci piace comunque immaginarlo come un omaggio alle sue svariate collaborazioni con gli artisti autoctoni Cesare Basile (Gran Calavera Eelettrica e il prossimo Hellequin Song), la pianista dalla voce doro Marta Collica, laustraliano Hugo Race da qualche anno trapiantato a Catania ed in generale con tutti gli Other Strangers, collettivo nato tra le pietre laviche della città.
..mi sono immediatamente relazionato al modo di lavorare laggiù( )cera casualità, cera gente che passava in studio per un bicchiere di vino, qualche oliva o per strimpellare la chitarra.
John Parish con Once Upon a Little Time (titolo ispiratogli dallattacco delle storielle che scrive la figlia Hopey) presenta un po il distillato di anni di produzioni (Afterhours, Eels, Basile) e di collaborazioni (PJ Harvey)che hanno visto il polistrumentista Parish sdoppiarsi, triplicarsi con ingegno e inventiva nelle sue poliedriche qualità.
Come fare a definire un disco che sa essere country, acustico, strumentale, rock e che mai si fa raggiungere dalle previsioni dellascoltatore? Allora per comodità lo definiremo un disco alla Parish perché il tocco del campione è netto e inconfondibile.
Lintero corpus è rigonfio di tepore. Le chitarre western, il piano timido ed una batteria rilassata collocano chi ascolta allinterno di unideale camera in cui Parish è li a suonare. Ed è proprio un costante senso di presa diretta che segna il disco, dove, ci possiamo scommettere, le esibizioni dal vivo manterranno lo stesso calore racchiuso ermeticamente tra le tracce.
Entrando nello specifico, raccontiamo dellesordio pianistico di Salò collocato come timido apripista alla malinconia (Nick Caviana), che John canta, coadiuvato da Marta Collica, in Boxers e Choise.
Il passaggio al brano country Ever redder than that è improvviso come quello del ritorno alle atmosfere tiepide e casalinghe della suite acustica Water Road, originariamente scritta da Parish per il fim Water della regista Jennifer Houlton.
Le chitarre di Hugo Race in Kansas City Eletrician, laltro bel pezzo strumentale del disco Stranded e la tenera melodia di Glade Parksi collocano come baricentro del disco ed anche come antipasto dallinteressante chiaroscuro finale.
La frettolosa, sgangherata e distorta Ever redder than that too deve arrendersi allintimismo della suadente The Last Thing I heard her say, dove un po di Tom Waits e molta dolcezza ci accompagnano alla conclusione di questa breve storia.
Once Upon a Little Time è un album denso, corposo. Cè molto da ascoltare, ci sono strati sonori da esplorare. Ma soprattutto pare lincipit di una storia musicale solista ancora molto molto lunga.
Nota
Oltre a Jean Marc Butty (batteria), Marta Collica (tastiere) e Giorgia Poli (basso), il disco vanta degli apporti di Cesare Basile, Roberta Castaldi, Enrico Gabrielli, Hugo Race