‘Cassare’ lo Statuto dei lavoratori? No, grazie

Da qualche anno, e in particolare in questi giorni, il dibattito pubblico sulla crescita economica dell’Italia è incentrato sull’abolizione dell’articolo 18 della legge 300 del 1970 che contiene lo ‘Statuto dei diritti dei lavoratori’. Si badi bene che l’articolo 18 di cui tanto si parla si limita a recepire una norma antecedente allo stesso ‘Statuto’, che regolava i licenziamenti individuali senza giusta causa o giustificato motivo. Cioè una legge che non aveva alcun riferimento alle riduzioni di personale per ristrutturazioni aziendali o per carenza di commesse di lavoro o comunque conseguenti a difficoltà di mercato. Ma semplicemente di impedire ai titolari di azienda di licenziare un singolo lavoratore così, per capriccio, per ritorsione, per antipatia, senza un motivo congruo e oggettivo. Peraltro questa norma non si applica alle imprese che hanno meno di quindici lavoratori alle proprie dipendenze.
Per trent’anni questa norma è stata unanimemente accettata e, tuttavia, nei processi di ristrutturazione delle aziende le riduzioni di personale si sono succedute senza che la vigenza dell’artico lo 18 creasse soverchie difficoltà. Da quando, però, è intervenuta la cosiddetta Seconda Repubblica, ed è apparsa all’orizzonte politico la figura dell’onorevole Berlusconi e i cascami del dopo craxismo (leggi Sacconi e Cicchitto, ex socialisti, compagni dell’ideatore dello Statuto dei diritti dei lavoratori, Giacomo Brodolini), l’argomento è entrato stabilmente nell’agenda politica.
Guarda caso, è da quella data che, in Italia, la crescita economico-produttiva si è fermata. Mera coincidenza? Sarebbe interessante capire cosa pensano questi ex socialisti di chi specula, delocalizza ed evade il fisco, utilizzando, estero su estero, le dislocazioni produttive.
Direte: cosa c’entra tutto questo con l’articolo 18? Centra, perché è in questo contesto che matura l’esigenza, chiamiamola così, di eliminare l’obbligo, per le aziende, ma anche per gli uffici pubblici, di motivare le ragioni di un licenziamento. Da qui l’impegno, di una certa parte politica, di abolire questo vincolo: un impegno vissuto come una vera e propria aberrazione ideologica.
Questo dibattito ha influenzato in misura ragguardevole anche il Partito democratico: un ex partito di sinistra che, adesso, è una sorta di ibrido interclassista che vorrebbe succedere, in questo ruolo, alla scomparsa Democrazia cristiana, senza averne, però, i numeri e lo spessore culturale.
Ricordiamo l’onorevole Massimo D’Alema, presidente del Consiglio – per grazia ricevuta – puntare con il suo governo a rivedere il welfare e scontrarsi per questo con la Cgil di Sergio Cofferati. Ora, quell’incoraggiamento ad intaccare il sistema di garanzie che regola i rapporti di lavoro trova nuovi profeti quali il professore Pietro Ichino, che teorizza un sistema di garanzie sociali tutto a carico della finanza pubblica, assecondando la nuova cultura produttiva introdotta dall’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, e da questi mutuata dalla storica figura del ‘Padrone delle ferriere’. Il professore-senatore Pietro Ichino è torinese come del resto la ministra, professoressa Elsa Fornero, anche lei sostenitrice dell’abolizione dell’articolo 18.
Una proposta coerente con queste posizioni ministeriali e politiche verrebbe da suggerire al ministro dell’Istruzione e dell’Università, professor Francesco Profumo: mandi domattina al professore Ichino e alla professoressa Fornero una lettera di licenziamento dal loro incarico di docenti, così, senza motivo, senza giusta causa, tanto per gradire e stiamo a vedere se l’accetteranno di buon grado e cordialmente nella prospettiva di una moderna ed avveniristica visione dei rapporti di lavoro, in un’ottica riformista. Se la cultura progressista e riformista è questa proviamo a sperimentarla con un atto di una certa consistenza, con un provvedimento concreto e stiamo a vedere l’effetto che fa.
Si racconta che questo provvedimento (l’abolizione dell’articolo 18) è necessario a sanare lo iato esistente tra chi è garantito e chi no e si pensa di risolverlo precarizzando totalmente i rapporti di lavoro, cioè abolendo i diritti conquistati con dure lotte e sacrifici per rendere tutti i lavoratori più deboli nei confronti degli imprenditori, sotto il ricatto delle delocalizzazioni. Marchionne docet.
La risposta alla domanda di lavoro da parte dei giovani, a nostro parere, passa attraverso nuovi investimenti nei settori a forte contenuto tecnologico dove occorrono forze nuove e mentalmente (oltre che manualmente) pronte a misurarsi con i nuovi processi di produzione. Ciò è ancor più necessario atteso che le nuove norme che regoleranno la vita lavorativa prescrivono la permanenza nel mondo del lavoro sino al compimento dei settanta anni di età. Quindi non si può sperare nemmeno sul turn over.
La verità, purtroppo, è da ricercare nello smantellamento dell’apparato produttivo pubblico che è stato quello che ha contribuito alla ricostruzione del Paese e alla sua collocazione fra le maggiori potenze industriali del mondo. Da quando quell’apparato – con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni – è venuto meno, l’Italia ha cessato di crescere. La sua classe imprenditoriale ha dimostrato abbondantemente di non nutrire alcun senso dello spirito nazionale o europeo, se non per chiedere assistenza. Non a caso la più prestigiosa impresa nazionale per ricerca e innovazione resta Finmeccanica che, sino ad ora, è a larga partecipazione, se non addirittura per intero, pubblica.
Investimenti, dunque, nelle produzioni d’avanguardia e abolizione del precariato. Con i contratti a tempo e la variabilità del lavoro non si fa professionalità, né si fidelizza il lavoratore alla sua azienda e perciò anche l’azienda diventa precaria.

 


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Da qualche anno, e in particolare in questi giorni, il dibattito pubblico sulla crescita economica dell'italia è incentrato sull'abolizione dell'articolo 18 della legge 300 del 1970 che contiene lo ‘statuto dei diritti dei lavoratori’. Si badi bene che l'articolo 18 di cui tanto si parla si limita a recepire una norma antecedente allo stesso ‘statuto’, che regolava i licenziamenti individuali senza giusta causa o giustificato motivo. Cioè una legge che non aveva alcun riferimento alle riduzioni di personale per ristrutturazioni aziendali o per carenza di commesse di lavoro o comunque conseguenti a difficoltà di mercato. Ma semplicemente di impedire ai titolari di azienda di licenziare un singolo lavoratore così, per capriccio, per ritorsione, per antipatia, senza un motivo congruo e oggettivo. Peraltro questa norma non si applica alle imprese che hanno meno di quindici lavoratori alle proprie dipendenze.

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