1914-2014: la Grande guerra (come festeggiare o addolorarsi per conto proprio)

“Domani nella battaglia pensa a me,

quando io ero mortale, e cada la tua lancia.
(…)

Domani nella battaglia pensa a me,
dispera e muori”
W. Shakespeare

di Cettina Vivirito

Un’estate afosa di cento anni fa, esattamente il 28 luglio del 1914, scoppiava la prima Grande Guerra. Non si contano programmi televisivi e radiofonici, pubblicazioni, allegati, speciali e editoriali sulla straordinaria ricorrenza. Nonostante ciò, la sensazione è che rimanga un “fatto” lontano e nebuloso, che non ha più niente da dirci. Persino gli strategici in tempo reale e gli sparatutto dei viodeogiochi, per la maggior parte costituiti da giochi di guerra, quasi mai hanno ambientazioni da prima guerra mondiale; semmai della seconda, della guerra fredda oppure della guerra di secessione.

“Perché anche i videogiochi la ignorano?”, si chiede Aldo Fresia, un appassionato ed esperto di video games, su un giornale online. “L’identificazione del giocatore nelle vicende narrate è un motore importante”, sostiene nel suo articolo, “e non sorprende che i nemici da affrontare siano tratteggiati come il male assoluto, in un approccio manicheo: da una parte i buoni, dall’altra i cattivi.

“Spesso i giocatori vestono i panni del baluardo della democrazia liberale in lotta contro i totalitarismi e dunque i cadaveri seminati lungo la campagna sono legittimati dall’ideologia dominante”. (…)

“I fatti della Prima Guerra Mondiale non offrono facili appigli dogmatici: gli avversari non rappresentano ideologie estremiste o religioni radicali, sono uomini che combattono per il proprio paese”.

Questa dimenticanza ha il solo merito, in concomitanza con la ricorrenza del Centenario, di risparmiarci rituali pubblici che assomigliano molto a grandiosi lavacri purificatori degli egoismi umani, ma certo è un evento da ricordare, e da capire.

La Grande Guerra fu il primo conflitto di dimensioni intercontinentali, combattuto dal 1914 al 1918. Innescata dalle pressioni nazionalistiche e dalle tendenze imperialistiche coltivate dalle potenze europee a partire dalla seconda metà del Novecento, coinvolse ventotto Paesi e vide contrapposte le forze dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia, Italia e loro alleati) e gli Imperi Centrali (Austria-Ungheria, Germania e loro alleati). Assunse una dimensione mondiale anche dal punto di vista dei teatri degli scontri si combatté, oltre che in Europa, nell’Impero ottomano, nelle colonie tedesche, in Asia e su tutti i mari, anche se le battaglie decisive si svolsero in Europa.

Negli stessi anni le crisi internazionali si fecero ricorrenti, in particolare a seguito dell’annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria-Ungheria (1908), che alimentò gli scontri nei Balcani, principale focolaio di tensioni. La causa scatenante della guerra che tutti conosciamo fu l’assassinio, a Sarajevo, per mano di un’organizzazione patriottica e nazionalista serba, dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono austro-ungarico, era il 28 giugno 1914. Appena un mese dopo, il 28 luglio, la mano rinsecchita e delicata dell’imperatore appose la firma: l’Austria dichiarò guerra alla Serbia. (sopra, foto tratta da silab.it)

Quello che ci interessa qui ricordare, per un Centenario che ci trova più basiti che forti dell’esperienza, è che l’Europa uscì dal conflitto con circa otto milioni di morti e venti milioni di feriti, un mare di distruzioni e tanti debiti. Che i trattati di pace non servirono a far superare le rivalità nazionali che erano state all’origine della guerra, creando le premesse per ulteriori conflitti; in particolare, la dissoluzione dell’Austria-Ungheria e le condizioni di resa imposte alla Germania riversarono le tensioni nazionali su molti dei nuovi Stati e tra le potenze vincitrici e la Germania, alla quale furono imposte condizioni politiche, economiche e militari talmente aspre da rivelarsi in breve fuori dalla realtà. Più in generale, fallì il tentativo della Società delle Nazioni (istituita poi nel 1919) di costruire un organismo per un nuovo sistema di rapporti internazionali.

Lo scrittore polacco Joseph Wttlin nel suo ultimo libro, “Il sale della terra”, pubblicato da Marsilio, nell’obbligarci a un ripasso di storia, ci invita a riflettere sull’incredibile attualità di quell’istante epocale in cui fu emessa una dichiarazione di guerra, fissando, anziché i protagonisti, lo sfondo delle società che ne costituivano il contesto; in quello sfondo si evidenzia con tutta semplicità la normalità, l’ordinarietà di quel periodo, di quei mesi, di quei giorni: i giornali che dedicarono il solito spazio ai fatti locali; la politica estera che era poco seguita, ieri come oggi, soprattutto d’estate.

Nell’afoso mese di luglio del 1914, gli europei pensavano, come oggi, alle vacanze. Federico Guglielmo II navigava nel mare del nord; il Presidente francese Poincarè non era sufficientemente preoccupato per cancellare una visita a San Pietroburgo; il primo ministro era fuori Parigi proprio nei giorni cruciali della crisi; Londra non dava un chiaro segnale di che cosa avrebbe fatto in caso di guerra. Gli stessi banchieri della banca centrale, noti per la loro prudenza, aspettarono l’ultima ora per cautelarsi sospendendo la convertibilità in oro della circolazione cartacea. Dubbi, incertezze e perplessità incluse quelle dei sovrani sembrano assopire quelle giornate; poche le persone influenti che si opposero chiaramente all’uso delle armi e alla guerra si arrivò, nella metafora di Clarke, come “sonnambuli”. Gli stessi socialisti tedeschi (che godevano di una buona rappresentanza parlamentare), furono spiazzati dagli eventi.

Le conseguenze furono tali che da allora ci si interroga sull’inevitabilità della tragedia e su chi ne sia stato principale responsabile. Nel 1961 il Reich fu nuovamente messo sotto accusa dallo storico tedesco Fisher, ma la tesi di una fondante responsabilità tedesca nella Grande Guerra non resse all’analisi storica. Colpe di omissioni, indifferenza, scarsa lucidità nel valutare le conseguenze di lungo periodo di decisioni apparentemente poco rilevanti, vennero infine distribuite tra i governanti di tutti i paesi coinvolti, e le rispettive élite.

Una situazione generale in cui si potrebbe riconoscere il nostro ordinario presente e la narcosi che lo caratterizza, la leggerezza con la quale si scaricano colpe e responsabilità mentre le guerre circuiscono parte dell’umanità che soffre e muore sotto i nostri occhi da sonnambuli, come se le guerre fossero per sempre in un “altrove” da guardare alla tv, da leggere su fb e semmai ascoltare alla radio mentre siamo stesi al sole. Fluttuando tra pensieri sconnessi e paure nascoste. E se qualcuno muore mentre noi continuiamo a rimanere vivi questo ci fa sentire criminali, ma solo per un istante, in un torpore generalizzato che si rifiuta di vedere ogni sofferenza se non la propria. Cosa che, alla stregua di un presentimento, ha fatto lanciare l’allarme a Paul C. Roberts, noto economista americano: “War is coming”.

La propaganda straordinaria condotta contro la Russia dai governi statunitense e britannico e dai media occidentali ha lo scopo, per P.C. Roberts, di portare il mondo ad una guerra che nessuno potrà vincere. “I governi europei devono scuotersi dalla noncuranza”, ammonisce, “perché l’Europa sarà la prima ad essere vaporizzata a causa delle basi missilistiche statunitensi che ospita per garantire la propria sicurezza”.

In particolare, come ha riportato Tyler Durden di Zero Hedge, la risposta russa alla sentenza extragiudiziale di un tribunale olandese, che non aveva alcuna giurisdizione sul caso che ha arbitrato, con la quale viene ordinato al governo russo di pagare 50 miliardi di dollari agli azionisti della Yukos (un’azienda corrotta che in realtà depredava la Russia), è molto significativa. Quando gli è stato chiesto come la Russia si comporterà riguardo alla sentenza, un consigliere del presidente Putin ha risposto: “C’è una guerra che sta arrivando in Europa. Crede davvero che questa sentenza abbia importanza?”.

Nella propaganda che viene usata per demonizzare Putin e la Russia si rimane in effetti interdetti dalle strabilianti e aggressive bugie del giornale britannico The Economist del 26 luglio, dove una evidente spinta verso la guerra si intravede nella richiesta all’Occidente di smettere di essere conciliante con la Russia e intraprendere le azioni più dure possibili contro Putin. Contestualmente sembrerebbe profilarsi l’ipotesi di una strategia di crisi economica per produrre massa di giovani disoccupati che così si arruolerebbero: la crisi che ha colpito soprattutto il Sud Europa rende infatti disoccupati milioni di giovani, che, come i precedenti giovani del Sud Italia, verrebbero utilizzati al fronte, esattamente come nella prima e nella seconda guerra mondiale. “Se la guerra ci sarà, e prima o poi nei prossimi anni ci sarà, i Governi Occidentali potranno disporre di milioni di disoccupati che anche se contrari alla guerra, per un pezzo di pane diranno in massa di si” sostengono in molti sul web.

Di sicuro possiamo trovarci d’accordo con Z. Bauman quando sostiene che noi europei del ventesimo secolo ci troviamo sospesi tra un passato pieno di orrori e un futuro distante pieno di rischi, passando per questi anni correnti di deregulation, di individualizzazione, di incertezze assolute. Le poche e inorganiche commemorazioni del 1914 di cui sappiamo mettono in luce proprio l’inesistenza di una memoria collettiva europea, riproducendone di conseguenza solo frammenti, e punti di vista emotivamente, passionalmente unilaterali.

Con la mostra “Verso La Grande Guerra” al Vittoriano, con la quale si vuole commemorare il grande conflitto, il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e presidente del Comitato per la commemorazione, Paolo Peluffo, per l’occasione ha sostenuto che “La Grande Guerra è stato un passaggio fondamentale nel processo di costruzione del nostro Paese perché è nell’affratellamento delle trincee il primo momento vero in cui si sono “fatti” gli italiani”. Un’affermazione insostenibile (non possiamo fare a meno di pensare che il sig. Peluffo non ha fatto il militare ma forse ha giocato parecchio ai video games, preferendo la guerra di secessione). Era l’ultima cosa di cui gli italiani avevano bisogno per sentirsi fratelli.

A Sarajevo, il 28 giugno 2014, anniversario dell’attentato del rivoluzionario bosniaco Gavrilo Princip, si sarebbe dovuto tenere un raduno dei capi di stato e di governo europei. Il piano, abbandonato ufficialmente nel giugno 2013 da Hollande, ha ceduto il posto ad una kermesse ludico-celebrativa dominata dalla delegazione francese, con la partecipazione in tono minore di qualche altro partner dell’Unione.

In Belgio, il Centenario assomiglia a tutto tranne che ad un momento di riconciliazione nazionale: fiamminghi e valloni stanno ancora litigando sui danni (o i pregi, a seconda della prospettiva) dell’occupazione tedesca.

Di spessore la Commemorazione in Trentino invece, dove più di duemila persone si sono recate all’appuntamento di Forte Dosso delle Somme, a Dolomiti di Pace sull’Altopiano di Folgaria. Sul prato che ricopre i segni ancora evidenti dei crateri lasciati dalle bombe, gli oltre duemila spettatori presenti hanno ascoltato il Silenzio, la melodia che saluta i soldati a fine giornata e i morti in battaglia, nonostante la pioggia e con le nebbie che tagliano veloci la mole imponente del Pasubio.

Nel suo discorso di saluto Franco Marini ha ribadito come questo progetto del Silenzio vuole essere una riappropriazione della Pace. In una chiusa più storica Camillo Zadra ha ricordato come la guerra nel suo dramma sia stata forse l’unica esperienza unitaria dell’Europa del Novecento e che da allora, purtroppo, le guerre europee sono state molte e di varia natura, sul nostro territorio, altrove, fredde o calde. Da allora si è pure capito che la guerra non finisce ed entra tutti i giorni nelle nostre case con la cruda ferocia dei fronti caldi dell’Ucraina, della Palestina.

Il regista Ermanno Olmi, che a novembre presenterà il suo lavoro dedicato all’ultimo giorno di guerra e intitolato “Torneranno i prati”, ha forse sintetizzato il pensiero di tutti sostenendo che non è facile parlare di pace, perché mancano le parole, che si può soltanto rinnovare noi stessi per dare nuovo significato alle stesse parole, altrimenti irretite dal silenzio. Ma più e meglio ha saputo parlare la musica nell’interpretazione del Silenzio di Paolo Fresu, che ha dato l’idea di come una melodia possa essere capace di percorrere pascoli, abetaie e superare montagne e confini, in un viaggio tra canzoni d’epoca cantate su questo o quel fronte, e altre ancora che furono ideate da una parte del fronte e poi vennero cantate nell’altro schieramento. Da “Va l’Alpino” al più gioioso “O surdato nammurato” fino al brano che Fresu ha ideato per la colonna sonora di Olmi “Del soldato in trincea”: un omaggio al potere della musica sulla memoria, capace di superare le divisioni e unire gli uomini.

In Sicilia, Gela è stato il primo Comune, in giugno, a commemorare il Centenario. Durante la cerimonia, alla quale ho assistito per caso in una giornata in cui lo scirocco ha, in modo del tutto naturale, evocato quell’afosa estate di cent’anni fa, giunti sul sagrato della Chiesa del Rosario il sindaco Angelo Fasulo ha ricordato i nomi dei decorati gelesi al valore militare che sacrificarono la loro vita per la Patria. Quei nomi somigliavano a quelle facce intorno, di gelesi, parenti di quei soldati dai cognomi siciliani. Dopo qualche minuto di sincera compartecipazione l’inno del Piave, il silenzio d’ordinanza e i dieci rintocchi dell’antica campana della chiesa che hanno suggellato il ricordo dei caduti nella memoria delle nuove generazioni (almeno nelle intenzioni).

Appena fuori dal sagrato, sul mare, il vento spingeva via le nubi e faceva fuggire le spume una dopo l’altra verso le coste bianche dell’Africa in un orizzonte terso, in una luce di lontananza che sembrava il fondo trasparente della vita stessa. In quel silenzio d’ordinanza il tempo sembrava rapprendersi in grumi distinti e adiacenti, un tempo verbale coniugato al futuro anteriore, che c’introduce sempre alla formula dubitativa del nostro passato: sarà poi stato vero che valeva la pena di? Lanciare il passato nel futuro come una promessa sempre rimandata e sempre, differita.

Foto di prima pagina tratta da lintraprndente.it

 


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