Dopo Riina, Messina Denaro venerato come un dio «Io dico che la sua famiglia andrebbe santificata»

«Era necessario fare scrusciu». Così dicevano alcuni degli indagati colpiti dall’operazione antimafia messa a segno la notte scorsa nella provincia di Trapani e che ha portato al fermo di 21 affiliati alle famiglie mafiose di Castelvetrano, Campobello di Mazara e Partanna. In realtà i provvedimenti sarebbero 22: l’ultimo, rimasto ineseguito, è quello destinato al superlatitante Matteo Messina Denaro, che nei suoi territori, a sentire parlare i magistrati di Palermo che hanno coordinato l’indagine, rimane l’indiscusso «cuore pulsante». Una mafia, quella trapanese, che non disdegna i vecchi metodi duri e violenti, e che proprio l’anno scorso ha portato all’omicidio di uno dei protagonisti della famiglia di Campobello, Giuseppe Marcianò, su cui ancora si indaga. E che dimostra di avere disponibilità di armi e pochi scrupoli. L’inchiesta ha portato alla luce estorsioni, danneggiamenti e incendi, intestazione fittizia di beni, infiltrazioni per l’assegnazione degli appalti, interventi repentini per la risoluzione di controversie economiche fra le famiglie del territorio o con imprenditori che non volevano piegarsi al giogo del pizzo. Anche se tra questi non tutti hanno denunciato le richieste estorsive ricevute. Anzi qualcuno – chiariscono gli inquirenti in conferenza stampa – «non si è neppure accorto dei danneggiamenti subiti».

«Cosa nostra trapanese si mostra particolarmente vitale nel territorio», commenta il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi. In questa provincia l’organizzazione dimostra di prediligere i rapporti familiari, scegliendo i propri vertici di riferimento secondo uno schema quasi dinastico, che fa coincidere quindi il vincolo mafioso con quello di sangue. All’apice infatti ci sarebbero stati i due cognati di Messina Denaro, Rosario Allegra e Gaspare Como. Quest’ultimo aveva assunto la reggenza del mandamento di Castelvetrano, dopo le operazioni del 2013 e del 2015 che avevano colpito i principali esponenti dell’organizzazione. Como è un personaggio rimasto a lungo nell’ombra, fino al momento in cui avrebbe assunto, a inizio 2016, la guida del mandamento. A sua volta avrebbe scelto di affidarsi a una ristretta cerchia di sodali, anche loro fermati nell’operazione: Vincenzo La Cascia, Antonino Triolo, Calogero Guarino e Vittorio Signorello.

Matteo Messina Denaro, u siccu
L’operazione odierna contribuisce a fare emergere ulteriori aspetti caratteristici del boss di Castelvetrano «Particolarmente diverso rispetto a tutti i grandi latitanti del passato finiti poi arrestati», specifica Lo Voi. Un latitante che starebbe sul proprio territorio, mantenendo i contatti ma che nello stesso tempo è mobile. Un modo di fare che disorienta e che richiede particolare attenzione ad ogni minimo dettaglio, anche collaterale, che riguardi le zone che per lui sono un punto di riferimento. Anche in termini simbolici e affettivi. «I due cognati erano una sua estensione, rappresentavano il mezzo nell’articolazione dei rapporti mafiosi», va avanti il procuratore capo. Tra i motivi che hanno portato al fermo c’è anche la volontà di alcuni degli indagati di fare perdere le proprie tracce, rendendosi latitanti, per timore di imminenti operazioni di polizia. L’attenzione nei confronti delle forze dell’ordine, tuttavia, non hanno frenato gli indagati da mostrare l’attaccamento verso l’unico e indiscusso punto di riferimento: Messina Denaro. Tra di loro c’è chi ne parla con venerazione, non esitando infatti a paragonarlo ai santi e a padre Pio – «Padre Pio ci devono mettere accanto allo zio Ciccio e a quello… quelli sono i santi» – mentre c’è chi rivendica una sorta di diritto di opinione nell’affermare la propria ammirazione nei confronti del boss. «Io dico quello che penso e dico che la famiglia Messina Denaro andrebbe santificata e mi arrestino pure quello che penso e che dico».

L’aurea da intoccabile sarebbe spettata anche ai familiari, per i quali i sodali non esitano a mobilitarsi ed esporsi, come avviene quando la sorella del latitante subisce un furto nella sua abitazione estiva. C’è un codice da rispettare e nulla, men che meno un fatto del genere, può restare impunito. «La struttura mafiosa nel Trapanese è saldamente nelle mani di Messina Denaro», ribadisce il comandante del Ros, il generale Pasquale Angelosanto. Gli fa eco Alessandro Giuliano, direttore del Servizio centrale operativo, che sottolinea come questa operazione, che ha colpito ben sei capimafia, coinvolga i «principali colonnelli e intermediari del latitante».

Comunicazioni
«Emerge dalle indagini un’estrema e maniacale attenzione ai sistemi di comunicazione e alla tutela dei metodi che adottavano per sentirsi fra loro – dice ancora il procuratore Lo Voi -. Effettuavano continue bonifiche dentro ai locali e nelle autovetture per evitare di essere registrati». Gli indagati sarebbero stati inoltre soliti fissare gli incontri palesando pretesti e fini diversi e avendo cura di non portare con sé i cellulari per timore di essere intercettati. Al centro del sistema di comunicazione ci sarebbero stati i pizzini. Tramite essi Messina Denaro sarebbe riuscito a veicolare le proprie disposizioni. Buona parte di questa corrispondenza riservatissima è stata ritrovata nell’abitazione di un fedelissimo, Nicola Accardo, vertice della famiglia mafiosa di Partanna. Nei pizzini ci sarebbero indicazioni su nuove leve da coltivare e incentivare, ma anche suggerimenti su come dirimere controversie spinose fra le famiglie rivali e interventi sulla gestione del futuro parco eolico di Mazara.

Le regole di Cosa nostra
«Abbiamo registrato conversazioni tra alcuni soggetti che commentano fatti del passato. Una fra tutte ci ha colpito per i toni e le posizioni assunte. Riguarda l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo – spiega ancora Lo Voi -. Gli indagati condividono quell’uccisione e la giustificano anche, a dispetto di altri personaggi che invece in passato hanno preso le distanze da questo delitto. Quell’uccisione è stata per loro un’azione corretta secondo le regole di Cosa nostra». Il riferimento del procuratore va a un colloquio in cui si difende l’operato di Totò Riina, nel giorno in cui, il 17 novembre dello scorso anno, il sanguinario boss di Corleone è deceduto. «Ha sciolto a quello nell’acido? Ha fatto bene – si sente nell’intercettazione -. Il bambino è giusto che non si tocca però settecento giorni sono due anni, tu (Santo Di Matteo, il padre del ragazzo ucciso come vendetta per la decisione del padre di pentirsi, ndr) perché non ritrattavi tutte cose?».

I nomi dei destinatari del provvedimento di fermo:
Matteo Messina Denaro, cl. 1962
Nicola Accardo, cl. 1965, capo della famiglia mafiosa di Partanna
Gaspare Como, cl. 1968, capo del mandamento mafioso di Castelvetrano
Vincenzo La Cascia, cl. 1948, famiglia mafiosa di Campobello di Mazara
Dario Messina, cl. 1984, reggente del mandamento mafioso di Mazara del Vallo
Raffaele Urso, detto Cinuzzo, cl. 1959, famiglia mafiosa di Campobello di Mazara
Rosario Allegra, detto Saro, cl. 1953, famiglia mafiosa di Castelvetrano
Vito Bono, cl. 1959, famiglia mafiosa di Campobello di Mazara
Marco Buffa, cl. 1973, famiglia mafiosa di Mazara del Vallo
Filippo Dell’Aquila, cl. 1964, famiglia mafiosa di Campobello di Mazara
Mario Tripoli, cl, 1972, famiglia mafiosa di Campobello di Mazara
Bruno Giacalone, cl. 1961, famiglia mafiosa di Mazara del Vallo
Angelo Greco, cl. 1969, famiglia mafiosa di Campobello di Mazara
Calogero Guarino, cl. 1969, famiglia mafiosa di Castelvetrano
Giovanni Mattarella, cl. 1966, famiglia mafiosa di Mazara del Vallo
Leonardo Milazzo, cl. 1978, famiglia mafiosa di Castelvetrano
Giuseppe Paolo Bongiorno, cl. 1988, famiglia mafiosa di Castelvetrano
Vittorio Signorello, cl. 1962, famiglia mafiosa di Castelvetrano
Giuseppe Tilotta, cl. 1962, famiglia mafiosa di Castelvetrano
Antonino Triolo, cl. 1970, famiglia mafiosa di Castelvetrano
Andrea Valenti, cl. 1952, famiglia mafiosa di Campobello di Mazara
Carlo Cattaneo, cl. 1985


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L’operazione messa a segno nel Trapanese ha svelato un assetto incentrato sui vincoli di sangue. Al vertice dell'organizzazione ci sarebbero stati i due cognati del superlatitante che, stando agli inquirenti, si sarebbe trovato sul territorio e avrebbe usato i pizzini per comunicare le proprie disposizioni. Guarda le foto

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