Voglio raggiungere il Senegal

Avvio il mio iMac, attendo il suono d’accensione. Al centro dello schermo compare il profilo di una mela morsicata, lo sfondo è grigio. Poi c’è una rotellina che gira, allora lo schermo si fa tutto blu cobalto ed infine appare il desktop: mare increspato grigio verde. Sopra la linea dell’orizzonte è distesa una lunga petroliera con la prua rossa e lo scafo scuro. Avvio Safari, attendo che il programma si apra e penso al colore degli africani, alle distese marine, alle spiagge, forse alla savana, la terra gialla il Baobab…?

Devo raggiungere il Senegal?

Vado fiero della mia connessione wireless. Al sito della BBC (www.news.bbc.co.uk) apro la finestra connessa alla parola Africa. Prende forma una foto che ritrae sullo sfondo a sinistra tre uomini con vesti colorate in groppa a tre muli che trasportano sacchi di tela chiara: stanno in fila, uno dietro l’altro; in primo piano, invece, a destra, è ritratto un soldato in tuta mimetica ed elmetto, che offre le spalle a chi scatta la fotografia. Darfur. Poco più sotto, una piccola foto bicolore, grigio blu, raffigura il Mediterraneo. Lo spazio geografico tra l’isola di Malta e la Sicilia è cerchiato da un quadratino i cui quattro lati sono neri e focalizzano un tratto del Mediterraneo in cui sembra essere accaduto qualcosa di veramente serio. Poi c’è l’immagine di Nelson Mandela che indossa un paio di guanti rossi da pugile. Poi leggo Country profiles, A guide to Africa, choose a country. Cerco il Senegal e con un clic compare un profilo storico socio-economico di quella zona nord occidentale del continente africano. La bandiera nazionale del Senegal è verde gialla rossa. Una stella verde campeggia al centro, tra il giallo colore del deserto, il deserto che strangola le regioni sub-Sahariane dell’Africa.

Se immaginiamo il Senegal pensiamo forse al mare colore dei prati e le lunghe coste sabbiose, le piroghe costruite col legno delle magnifiche ceibe dalle grandi radici a forma di lame, pecispada e marlin, le palme da cocco, la fauna selvaggia africana, i pescatori di Kayar, quelli che inseguono sogni di fumo stretti dentro famiglie allargate tra cugini fratelli fratellastri e le quattro mogli del padre, i marabut e le scuole coraniche, la scuola francese. Le dune raggiungono le vicinanze di Dakar, l’aridità del Sahel, il miglio, sorgo e l’onnipresente arachide corrodono il maggese, il vento dell’harmattan soffia dal deserto del Sahara, lascia un suolo scheletrico che inaridisce la campagna. Immagino il Senegal e penso a Lampedusa, alle reti dei pescatori che di tanto in tanto, zitti zitti, tirano a bordo scarpe maglioni e resti inattuali, insieme a triglie rossicce che in quel mare di Sicilia sono un’altra cosa, saporite e grosse che sembrano di plastica. Anche il cantante brizzolato che suonava quel piccolo grande amore, anche lui rassicura che nell’isola gli immigrati non si vedono mica, non ce ne sono. Se non me lo avessero raccontato, io che c’ho vissuto, ecco, se non me lo avessero raccontato non me ne sarei accorto, mai. Il Centro di Permanenza Territoriale scoppia di immigrati da tutte le parti, letteralmente scoppia, trabocca, come quando stappiamo una bottiglia di spumante, a Capodanno. Si potrebbe vivere a Lampedusa senza che le nostre abitudini vengano scalfite dai libici. E io che percorrevo la via Roma di mattina pomeriggio e sera, e non ne sapevo niente; nessun venditore di fiori per chi si vuole bene, nessun pulivetro, niente CD taroccati, niente Vu cumprà, niente Banglaphone, niente nigeriane di sedici anni che entrano in macchina senza che te ne accorgi e posano le mani sul tuo sesso, ti assalgono di parole preconfezionate come se per sbaglio hai inserito quell’unica videocassetta porno che usi per le occasioni in cui ne hai davvero bisogno: l’unico tuo errore è stato lasciare lo sportello con la sicura alzata e accompagnare a casa un’amica che abita vicino al Irish pub: sedicenni con la pelle liscia come il velluto, curve perfette, labbra rosate.A Catania le più belle vivono al Centro; le altre, forse le più anziane, apparecchiano il banchetto dei desideri lungo la statale 417, con ombrellino e giornale per non annoiarsi. No, a Lampedusa non c’è niente di tutto questo, solo serenità e tranquillità e vento. Un vento impetuoso che capovolge le imbarcazioni lontane dalla costa e offre cibo nero per i pesci predatori.

Per raggiungere l’Africa, Lampedusa è una tappa obligatoria. La prima tappa. “Da ottobre del 2004 a ottobre del 2005, almeno 2.778 migranti – ma probabilmente molti di più – sono stati rimandati in Libia poche ore dopo il loro arrivo a Lampedusa, senza avere avuto accesso a metodi appropriati di identificazione né alla procedura di asilo, e dopo essere stati scelti in tutta fretta sulla base della loro nazionalità presunta.” (AmnestyInternational, Lampedusa: ingresso vietato, EGA Editore, 2005, € 8,00). Se non ci fossero stati quelli della televisione, quelli delle opposizioni politiche, quelli delle associazioni, se non ci fossero stati quelli che scrivevavo, tutti quei giornalisti appostati nell’imbarcadero con le telecamere in spalla; se un giorno non mi fossi alzato alle cinque di mattina per acquistare il pesce direttamente dalla mani del pescatore, non mi sarei mai accorto che in quella splendida e arcaica isola sbarcano decine e decine di uomini neri salvati dalle motovedette della Guardia Costiera.

Penso all’Africa e incontro Chinatown. Le botteghe dei vestiti gestite dai cinesi. Le donnine con gli occhi a mandorla attraversano la strada senza girarsi intorno, sanno sempre dove andare cosa fare, fanno gruppo tra loro, hanno le stanze ingombre di pacchi di cartone contenenti scarpe e vestiti d’alta moda, tutti chiusi impenenetrabili; qualcun dice in giro che si fanno curare il mal di denti in scantinati scalcinati dal parente dottore nato a Shangai che usa ancora la tenaglia. Chi ha visto un funerale cinese a Catania? Mangiano la pasta al forno e il gelato fritto, non salutano mai, anzi ti guardano senz’espressione perché tu, solo TU, ti trovi nel posto sbagliato. La cronaca ci restituisce cinesi che vendono tessuti e cinesi scafisti che imbarcano su un motoscafo a Malta immigrati clandestini per 1800 euro a capo e minacciano con la pistola l’equipaggio a saltare in mare a quindici chilometri dalla costa ragusana. Tra tanti cinesi vi sono anche uomini e donne dell’est, quelli che vengono dalla Bulgaria e dall’Albania. Anche Romania, Polonia, Ucraina, tutti quelli che lavorano in strada con la saponata in bottiglia, e vanno a finire dentro le casa come fanno i mauriziani, e accudiscono i nostri anziani, puliscono le cose che imbrattiamo, cambiano i pannoloni sporchi alle nonnine col femore ricostruito, sostituiscono i figli assenteisti, sempre a €4 l’ora, in nero. Ci sono poi quelle belle donne, Ucraine, che lavano, spolverano, e hanno il fidanzato siciliano e si possono fare la vacanza senza prendere né nave né aereo né treno, perché il permesso di soggiorno è scaduto. Entrate come turiste, cercano l’amore vero.

Proprio nella piccola zona cinese di Catania incontro un ragazzone nero, vicino al centro telefoni, vestito con pantaloni scuri e larghi, tappezzati di tasche anteriori e posteriori, e indossa un cappello militare mimetico e una camicia arancione che piove giù, fuori dai calzoni. Entra in una bottega di piazza Umberto, acquista una mafalda col sesamo e i formaggini, quelli racchiusi dentro le scatolette rotonde di plastica trasparente coi buchini di lato. Egli posa per terra i borsoni che trascina con disinvoltura sopra un carrello di ferro munito di un ripiano in compensato. Siede su una panchina sotto il sole micidiale delle due del pomeriggio. Col coltello taglia in due la mafalda, la apre, prende il formaggino, gli toglie via la carta e lo spalma dentro il panino. Mangia con un’espressione seria, non guarda dinanzi a sé, mastica e tira un profondo respiro. Prende dal taschino della camicia il cellulare, lo apre, gli dà una guardata, lo rimette a posto, cerca qualcosa dentro il borsone, apre una bottiglietta d’acqua e beve. Ha la pelle lucida, il labbro superiore è una mezza luna coricata, come un grosso spicchio di mandarino. Sul volto è dipinta un’espressione misteriosa, sembra un gorilla in cattività. Scende per via Etnea e va ad occupare il suo posto di lavoro ad angolo con via Pacini. Lo seguo. Lì svuota i borsoni, indossa le collane, qualche nastro fosforescente che attiri l’attenzione, i cappelini con le ventole, i ragni che ballano, gli orologi subacquei Citizen, CD e DVD a cinque euro trattabili, cinture, borse unica tinta con disegni geometrici bianchi a forma di labirinto, oggetti di legno, due djembé, stuole colorate, anelli braccialetti orecchini occhiali. Si dice che qualcuno di loro si fa più furbo degli altri, perché da Vu Cumprà vuole diventare commerciante. Qualcosa di più ingenuo che vendere fumo o sesso off limits. Questo me lo racconta Tony, un “bianco” ex bassista rock dei Markocurioso, vissuto in appartamento insieme ad alcuni extracomunitari senegalesi al tempo in cui si voleva fare un po’ di musica nuova a Catania: «vendere per loro è necessario, i primi tempi senza lavoro sai fare il muratore ma nessuno ti chiama per costruire come sai fare tu; vorresti fare il cameriere ma, dice il proprietario, c’è sempre qualcun altro più bravo che non ha la pelle nera e non intimorisci. E tu, che hai studiato economia aziendale, conosci il francese e credi in Allah, ti metti a vendere ad angolo di via Etnea questa roba, la roba del borsone, roba che hai trovato già tutta là dentro il giorno del tuo arrivo, non ti sei dovuto sforzare a raccoglierla qua e là per farti la tua piccola botteguccia da venditore ambulante. Quello che te l’ha dato il borsone, uno con la faccia bianca oppure un tuo cugino nero, ti ha detto: “Siamo amici, dormi da noi”. Ecco, tu che hai capito che se non fai 50€ al giorno il tipo che ti ha dato il borsone comincia a farti paranoie, fai esperienza di quanti euro costa la libertà. Allora giri per la fiera di Piazza Carlo Alberto, non ti perdi mai la fiera dei Morti, vai nei bazar di periferia e mentre cammini pensi alla tua terra di luce: due anni o dieci tornerai, tornerai, sempre, anche da morto, ma ritornerai. Hai messo da parte 50€, devi investirli. Ecco, ti compri un po’ di cose, occhiali anellini braccialetti colorati occhiali usati, li compri a 25 centesimi l’uno, e ti fai il tuo borsone. Compri 50€ di questa roba di plastica varia, dei facsimili luccicanti, di quelli che quando i ragazzini li vedono, fanno tutti capannello intorno a te e basta che indossi delle specie di Nike nere e un cappello stile Afrika Korps e fai vedere i capelli rasta, allora i ragazzi ti credono un Dio. Alle ragazzine piacciono i fili colorati intorno al polso e ridono e tirano la borsa della mamma; i ragazzi vogliono l’orecchino oppure la maglietta di Baiocco in serie A. Basta saperci fare e fare le persone semplici, naturali, fare gli amiconi. Ma quello che raccontano questi ragazzoni quando tornano in Africa per la festa di battesimo di un cugino e fanno regali costosi, fanno vedere cellulari, bei vestiti, roba che costa, raccontano di aver acquistato una Golf Volkswagen GL del 1987 grigio metallizata coi sedili in pelle nera e un Califfone cinquantino rosso fiamma; tutto quello che raccontano è la rivincita dell’immigrato extracomunitario: l’allegria di ritornare, mostrare il proprio orgoglio. E si dimenticano le difficoltà, la diffidenza, il vorace senso d’estraneità, i compromessi, i panini al formaggio, il mal di stomaco, la fatica per scaricare centinaia di casse dai camion, l’umiliazione, vedere la sorella prostituirsi.»
L’africano che torna nella propia terra è come il Siciliano che tornava da Brooklyn dopo vent’anni di polvere e sogni di gloria. Lui tornava col vestito nuovo, il sigaro tra i denti smaglianti e un po’ luccicanti e il portafogli gonfio di dollari.

Sto sempre con gli occhi puntati contro il ragazzone che ha messo bottega mobile in via Pacini, nel lato della Rinascente. Discute con un giovane mostrandogli dei cappelli. Proprio di fronte, invece, nella stessa zona, attraversando via Etnea, c’è una signora cinese. Da uno sguardo distratto sembrerebbe giovane giovane, sui venti anni, invece ha già le rughe in volto e potrebbe già essere diventata nonna. Vende oggettini colorati, cose minime: pile da pochi watt, un microfono antiquato, fili colorati, pinze, forbici, pistole spruzza acqua, accendini, finti telefonini di plastica custoditi dentro confezioni rosa con l’immagine di una bambola che ricorda Barbie. Porta con sé anche pezzi di un manichino: un piede capovolto su cui ha già infilato per metà una calza nera, e una testa come quelle che si usano per esporre le parrucche. La testa finta è ricoperta da una decina di cappelli, uno sopra l’altro, che la signora orientale aggiusta in modo da far notare il logo dei campionati del mondo di calcio 2006. Tutti gli oggetti sono ben riposti sopra un cubo di compensato incastrato ad una struttura colorata in ferro, munita di ruote e ricavata da un passeggino per bambini in disuso. Entrambi gli ambulanti, quando non vendono o non contrattano il prezzo con l’acquirente, s’aggiustano la bancarella, la ordinano, sostituiscono i pezzi con altri custoditi in borse o buste posate di lato sopra il marciapiede. Scendendo per via Etnea incontro un altro extracomunitario di colore, a pochi metri da piazza Stesicoro. Egli parla con un amico, sembra che si facciano compagnia. È alto, magro, indossa anche lui un cappello militare mimetico. Vende CD, DVD e occhiali da sole. La sua bancarella non è vistosa come quella del ragazzone del panino al formaggio. Sembra che possa farla e disfarla in pochi secondi: due ripiani neri coi bordi, tipo cassetta per le arance, e un tavolinetto leggero di legno chiaro. Lui è poggiato al muro. Quattro metri accanto c’è un cinese che vende roba elettronica, giocattoli, qualcosa di particolarmente colorato. Mi avvicino al ragazzo di colore e metto gli occhi dentro una di quelle cassette per le arance. «Vuoi CD?» fa lui. «Hai solo questi?» chiedo. Erano davvero pochi, sei sette in totale. «Vuoi vedere CD?» mi chiede. Io faccio cenno di sì e lui mi ripete la domanda. «Vuoi vedere CD?» Penso che egli voglia essere sicuro che io stia lì per comprare. Confermo le mie intenzioni ed egli fa un passetto laterale, s’abbassa e apre una borsa in pelle azzurra, una bella borsa in pelle che poc’anzi nascondeva con la propria persona. Tira fuori a mazzi parecchi CD legati tra loro da elastici gialli. Me ne porge uno di mazzo, me lo affida, facendo cenni con le mani e informando con parole confuse sulla sua offerta commerciale. «Piace musica inglese? Questo rock … questo bello … questo …» e indica con la lunga mano il prodotto. I CD, ovviamente, non hanno alcuna custodia rigida e neanche il bollino SIAE. In questo caso è da intendere per CD 1) una custodia in plastica trasparente, 2) una tasca di carta leggera su cui è stata stampata l’immagine della copertina originale del disco in questione, 3) un dischetto anonimo simile a tanti altri dischetti rescrivibili su cui è indicata la marca e la sua capienza totale. Nessun riferimento al contenuto. E mentre penso al CD, l’africano sembra mi faccia fretta, vorrebbe che scegliessi subito. Parla a bassa voce. Io scelgo Pino Daniele. 4€. Non contratto. Mi mostra subito un CD di Zarillo. Io invece lo saluto. «Ciao» gli dico e gli lancio un sorriso amichevole. E lui, che è stato serio tutto il tempo, mi dice «Ciao», allunga il braccio e quasi quasi mi sembra che vorrebbe sorridere insieme a me. È il tempo di un istante, poi si volge dall’altra parte e io vado via. Faccio dieci metri più giù verso piazza Stesicoro. Due vigili urbani osservano il traffico scorrere. Se solo guardassero meglio, potremmo assistere ad un inseguimento, penso: l’africano raccoglie velocemente tutto tra le braccia e corre, loro lo inseguono e lo mettono giù a terra con i CD sparpagliati per la strada e bloccano il traffico (a chi non è capitato leggere sul quotidiano qualcosa del genere oppure esserne testimone oculare?). Credo tuttavia che non sia compito dei Vigili quello di inseguire extracomunitari o probabilmente non è stato quello il momento opportuno per farlo.

Ho incontrato un altro senegalese. Uno tira l’altro e mi ritrovo dentro una casa con gli stendardi verde giallo rosso appesi al muro e un mucchio di djembé accatastati ad un angolo insieme agli elefanti di legno, e una donna, l’unica in quella casa che s’alza sopra la pescheria, non tanto alta perché non sia investita dal fetore di pesce e acqua marcia; quell’unica donna che prepara la cena non so a quanti senegalesi. Mi ci porta là dentro Elisa che tra le tante cose è amica di uno di loro. Dico uno di loro perché gli africani sono un’altra cultura. C’è poco da discutere. Se mangi pesce, tu, da brava occidentale educata a mangiare spaghetti con le melanzane con la salsa senza sporcarti le mani e il muso, stai in una certa maniera seduta a tavola e fai differenza tra esca e polpa; loro, se offri spaghetti, s’attorcigliano le dita, se prepari il pesce lo mangiano come se avessero di fronte un piatto di zuppa vegetariana. Purtroppo quella sera è toccato a me fare il barbaro, e davanti ad un unico e consistente piatto ceeb ak yàpp non sapevo dove trovare spazio, dove affondare le mani bianche, tra tante mani nere, straordinariamente disciplinate e sicure, belle mani: una donna impazzirebbe! Poi mi dice la mia amica che l’indomani Badù parte per Favignana come altri senegalesi, e tornerà a settembre. Bello, dico io. Bello, risponde lui che ascolta e sorride come il cielo. Lei mi dice che Badù sta qui da molti anni, partecipa a conferenze sull’immigrazione, lavora con le scuole e mi racconta che ha fatto anche l’allenatore di basket per i ragazzi dell’oratorio. Ormai è integrato, nel senso che riesce a lavorare bene. Lavori a progetti, s’intende, perché è un mediatore culturale e il titolo se lo è preso qui. Vorrei parlare con Badù, però lui s’è allontanato e s’è messo a ballare insieme ai suoi compagnoni: è l’ultimo giorno che stanno insieme, vuole danzare, mentre qualcun altro, stringendo tra le ginocchia un djembé colorato, ha cominciato a dare ritmo alla nostalgia d’Africa. Poi conosco Aminata. «Ha 38 anni, divorziata con tre figli.» mi racconta Elisa, «Proviene da un villaggio. È una wolof spostatasi a Dakar dopo il matrimonio. Le donne senegalesi a Catania sono pochissime. Affisso sulla perete di casa c’è un poster che raffigura l’immagine di un marabut in bubu bianco e il capo ricoperto da un foulard. Divide la casa di tre stanze con altri quattro uomini che provengono dallo stesso villaggio. Uno è il figlio Bassirou gli altri sono fratelli. Le famiglie senegalesi sono allargate. La tradizione musulmana concede agli uomini di avere sino a quattro mogli. Quattro mogli da mantenere sono molte quando le case sono piccole e nascono i figli. Lei sta quasi sempre in casa, cura la dimensione domestica, e si è inventata un lavoro come cuoca.» Gli uomini mangiano ceeb ak yàpp: riso con carne, pomodoro, carote, melanzane, verza e manioca, bevono il tè e le danno i soldi per fare la spesa. Aminata ha messo su una specie di ristorante. La sera salgono anche altri fratelli senegalesi e lei cucina per tutti. «Aminata ha deciso di venire in Italia per rivedere suo marito Ben, perché tutti i senegalesi che tornavano in Senegal dicevano che Ben era molto buono, bravo con tutti, dava soldi e mangiare, ma non mandava niente alla sua famiglia. Il fatto è che beveva, anche in Senegal lo faceva, di nascosto perché musulmano, ma in Italia è diventato proprio un problema. Aminata nel suo paese faceva la commerciante, vendeva vestiti in Guinea, Mali, Costa d’Avorio. Così, con i soldi guadagnati è partita ed è andata a Padova, ma non è riuscita a far tornare Ben in Senegal, perché lui non è voluto tornare. Dopo lui è morto, forse è stato l’alcol. Così Aminata è andata per la sua strada, è scesa giù in Sicilia dai cugini.» Mi accorgo che in casa abita anche quel ragazzone nero di Piazza Umberto. Lui dopo la cena, va all’Afrikatel per mettersi in contato giornalmente con la terra di una volta. Gli altri invece ascoltano musica senegalese, qualcuno balla, altri ancora giocano a carte, a belotte, una specie di scopone che si fa con le carte francesi.

Afrikatel è in via Salvatore Di Prima. Solitamente proprio in quell’angolo di città si raccolgono tre quattro prostitute nigeriane. Là c’è anche Khady, ma non c’entra niente con le altre. Pulisce il marciapiede di fronte all’agenzia telefonica con una scopa di paglia. «Il locale è di mio padre. Non il vero padre. Mio vero padre è in Senegal.» Mentre parla si tocca i piedi perché quasi si sdraia sopra il cofano di una vecchia Fiat Tipo bianca sporca, che appartiene a un suo amico e tanto l’auto è dismessa che sembra essere stata lasciata lì da mesi. Lei ha 17 anni, vive con la madre e il nuovo marito. I capelli neri sono intrecciati fittamente e annodati, e le trecce per ciascuna estremità sono raccolte da palloncini di calcio in legno colore ocra e quadratini neri. «Non mi piace studiare» dice mostrando i denti macchiati. «L’unica cosa che mi piace di Catania è l’amore per un ragazzo più grande che di tanto in tanto viene a trovarmi». Confessa di saper cucinare bene un risotto col pesce chiamato Kibujen. Le si avvicina una cugina, Holla, di 22 anni. A lei di Catania non piace quasi niente, lavora in piazza Carlo Alberto, e con tristezza racconta che i Catanesi molto spesso le rubano le collane che espone in vendita nella bancarella. Il suo sogno è avere un marito, una bella macchina, la casa e il lavoro. A Khady invece piacciono soprattutto i vestiti. L’italiano che parlano non è corretto soprattutto nella pronuncia delle vocali e di alcune consonanti come la B e la R. Svolto l’angolo e raggiungo Via Carlo Sada. C’è una Bottega con la scritta “Cheik Massamba”. Fuori l’uscio vi sono sei senegalesi che parlano tra loro. Chiedo cosa significa “Cheik Massamba”, nessuno di loro tuttavia fa segno di capire. Uno però mi dice: «tu non sei di Senegal, non puoi capire». Dentro la bottega è in vendita materiale elettrico, pistole per tapezzeria, borsoni, conduttori vari, eccetera eccetera. Il materiale è disposto tutto sopra il pavimento e su apposite mensole a muro.

La prima persona che Sylla ha conosciuto a Catania è stata Elisa. Erano tutt’e due alla fiera. Lei girava per fare la spesa, con un libro di Flaubert in mano e la borsa a tracolla. Lui invece lavorava come dipendente in una bancarella, e vendeva occhiali, cinture, borse, eccetera. Lei si è fermata per comprare una borsa, lui non conosceva bene l’italiano, ha notato il libro della ragazza e la lingua francese gli ha permesso di fare una nuova amicizia. Sylla è da cinque anni in Sicilia, ha girato anche il resto dell’Italia, ma infine ha deciso di rimanere qui. Avrebbe voluto imparare un mestiere e poi farsi assumere presso qualche fabbrica del nord, ma non è facile imparare i macchinari. I senegalesi sono spesso persone istruite, lui infatti insegnava ai bambini nei villaggi del suo paese. Tuttavia è difficile trovare un senegalese che abbia una certa manualità nell’uso dei macchinari, e facilmente per questo possono subire degli incidenti sul lavoro. Egli è stato impiegato anche in un call center, ma per motivi che non spiega, non è riuscito a farne un lavoro più stabile. Ha fatto anche il cameriere per una settimana: mattina pomeriggio e sera presso un bar di Corso Sicilia. «Era un lavoro pesante, e poi non mi hanno neanche pagato i giorni» confessa. Adesso segue un corso come mediatore culturale. «A Catania Badù è l’unico mediatore senegalese, poi ci sarò io. Vivo vicino al cinema King. Quella zona è storicamente abitata da senegalesi, soprattutto via Reggio». La zona di via Salvatore Di Prima è davvero ricca di piccoli magazzini e botteghe d’artigianato gestiti da senegalesi. Gli chiedo cosa farebbe a quest’ora nel sua paese (è luglio e sono circa le ventitrè). Lui risponde che starebbe in piazza a parlare con gli amici, seduto nelle panchine, qualcuno di loro farebbe un giro nel centro della città, «oppure prepariamo il tè. È molto particolare, la sua preparazione potrebbe durare anche tre ore», e imita la gestualità di chi prepara il tè, alzando e abbassando il braccio con un leggero movimento del polso in su e in giù.

Voglio conoscere anche Johnnys, perché dicono che lui vive qui da 22 anni. Possiede un negozio di artigianato africano in via Coppola. Mi avvio verso la bottega, ma è chiusa e c’è un cartellino con la scritta closed. Dinanzi l’ingresso, poggiato ad una vecchia Volvo anni ottanta, c’è un africano alto, indossa una maglietta blu senza maniche, scuri calzoni larghi e ciabatte ai piedi. Un altro è seduto sul gradino dinanzi la vetrina del negozio, più piccolo d’età e meno robusto. Hanno i capelli molto corti. «Ciao, c’è Johnnys?» chiedo a quello in piedi. «Johnnys non c’è, torna domani.» Spiego brevemente il motivo della mia visita, mi presento e dico che vorrei conoscere qualcosa di più della comunità senegalese a Catania. Nel frattempo si avvicina un altro ragazzo con la maglietta bianca, giovanissimo. Quest’ultimo però non parteciperà alla breve discussione, si chiama Ibraihm e lo conoscerò qualche giorno dopo in un pub del centro. Vengo a sapere che tutti i prodotti d’artigianato che si trovano all’interno del negozio di Johnnys provengono dal Senegal, sono stati lavorati laggiù. Dietro la vetrina illuminata da una luce giallognola osservo lunghe collane colorate, vesti africane, statue in legno. A parlare è sempre il ragazzo poggiato alla macchina. Dice che non abita a Catania, vive a Genova e scende in Sicilia per incontrare i suo amici. Il ragazzo seduto dice gesticolando «Catania Catania!», come se stesse parlando di qualcosa che abbia a cuore e di cui al tempo stesso vorrebbe disfarsene. Non ha gran voglia di aggiungere altro, guarda fisso sul marciapiede. «Vi riunite insieme da qualche parte?» chiedo. «Come far venire qui in Italia compagni?» domanda lo stesso non comprendendo bene. «No. Vi riunite nella moschea?» Quello seduto dice che non ce ne sono moschee a Catania. Io affermo che non è vero. I due si scambiano qualche parola nella lingua madre, poi il più grande aggiunge che conoscono un po’ tutti qui, anche quelli di Siracusa, e che si riuniscono in case private, anche per pregare, e mi indica il palazzo a fianco. Loro abitano negli appartamenti sopra la via di San Giuliano. Noto infatti che da un balcone s’affaccia un ragazzo di colore che digita qualcosa sul cellulare. «Se vieni domani incontri Johnnys» continua a dire sempre lo stesso. «Domani mattina passo» dico io, e li saluto e stringo la mano a tutti e tre. «Ma tu di dove sei?» «Di Catania, sono uno scrittore.» «Il giornale per cui scrivi è internazionale?» «Speriamo!» dico. Lungo la via mi volto per osservare bene il palazzo in cui abitano i senegalesi. Palazzo antico, con le mensole scolpite. Quattro balconi spalancati. Intravedo l’intonaco bianco delle pareti di un interno illuminato, e la lampadina che pende dal filo elettrico. Ho contato cinque antenne paraboliche montate sopra le ringhiere dei piccoli terrazzi. Domani incontro Johnnys.

Bakà è Johnnys, si fa chiamare anche così. Da 22 anni vive a Catania, da 7 gestisce il negozio di via Coppola, una bottega di materiale etnico d’importazione. Tratta artisti senegalesi, la sua famiglia vive in Africa e comunica con loro per telefono, all’Afrikatel. Lui conosce le donne senegalesi di Catania. «Le donne senegalesi cucinano oppure ballano nelle feste private. Ballano sette danze diverse perché sette sono le etnie del Senegal» dice. Chi compra nel suo negozio sono soprattutto giovani italiani e in particolare ragazze. All’interno c’è odore di incenso caldo, il locale è immerso nella penombra, colmo di roba africana riposta sopra i tavoli, sul pavimento, pendente da tralicci, appesi su traverse al tetto: camicie, artigianato in legno, bigiotteria, sandali, profumi, statue, elefanti. Bakà è sudato. Sembra annoiato. Non parla molto, non sorride, non dice niente di più niente di meno. Si lamenta del caldo umido. «In Senegal,» dice, «c’è molto meno caldo perché là il caldo è secco.» Vive da ventidue anni qui, è credo abbia imparato da noi la diffidenza. Certe cose se le sentono domandare da sempre, da dove vieni, dove vivi, che lavoro fai com’è fare l’immigrato sei sfruttato il permesso di soggiorno, le navi che affondano quelli che arrivano a nuoto, i soldi il mito dell’Occidente l’integrazione le statuette di legno. Camminano talvolta vestiti a strati con abiti lunghi sino ai piedi per la spiagga a 40 gradi all’ombra e vogliono vendere – ho comprato un cd Buddha bar €3 – , ma dove la prendono tutta questa roba!, si fanno Catania-Giardini ogni giorno in treno con le cinture intorno alle braccia. Negli scompartimenti trovi solo qualche turista pseudo intellettuale bresciano oppure imperturbabili tedeschi in coppia: lei donna lui donna. Vagoni vuoti, freschi solo in movimento, e poi questi omoni in gruppo dalle mani da contrabassista e i denti d’avorio, i borsoni pieni di roba sbarcata a Napoli tre giorni prima; abitano nelle case della pescheria affittate, l’odore nauseante vecchio di decenni s’alza dal selciato sino ai loro balconi. Solo loro possono vivere tutti insieme in quelle stanze come nella Kasbah, antiche case della borghesia bene catanese, ora cadenti e umide a duemila euro al mese … perché dovrebbero raccontarle a me tutte queste cose?

C’è anche Ibrahim. Vende vestiti, borse, cinture. Non ha né negozi né bancarelle. Dice che gli telefonano a casa e lui procura tutto quanto si ha di bisogno. Vive da solo. La sera lo si incontra nello stesso pub del Centro, seduto ai tavoli. Ha 36 anni, ne dimostra ventidue. Conosce tutti, saluta, stringe mani, bacia alla catanese, è generoso di sorrisi e attenzioni. Conosce molte ragazze, soprattutto quelle carine. Dice che era fidanzato con una di Nicosia e andava a trovarla ogni settimana. Ma la gente in quel paese lo guardava passare e sapevano già tutto di lui, s’erano informati, sapevano dove andava e perché, indagavano sul suo amore. Ibrahim preferisce l’anonimato della città, quella sana indifferenza che fa liberi. S’improvvisa anche cameriere per accellerare le ordinazioni. Parla come uno di noi, è perfettamente integrato come il tipico catanese da comitiva, dice “carusi” “amunìnni” “che fate stasera?” “allora?” “Andiamo ai Mercati generali?” “Venite con me, entro gratis” “Buon divertimento!”. Lavora di giorno, e allarga le mani per dire che si fa un mazzo così. Ibrahim viene alla Chiave da solo. Poi incontra altri suoi “fratelli” africani: uno che è sceso da Londra e fa il dj, l’altro che vende roba etnica in viaTrieste; e dialogano nella lingua madre. Vende vestiti e dice che una borsa di 3.000€, lui la vende a 150€, e dice anche che potrebbe mostrare nel pub tutti quelli che indossano le sue cose. Ibrahim veste un paio di jeans, una maglietta Dolce & Gabbana a strisce orizzontali bianche e verdi, le infradito ai piedi. Vive a Catania da dieci anni, ma viene dal Senegal.

Questo breve viaggio in Senegal voglio terminarlo con alcune fotografie scattate a Giardini Naxos, Messina.

Primo scatto. Focale lunga, dall’alto. Sfondo: sabbia, bagnanti, corpi più o meno gradevoli in costume da bagno, asciugamani, ombrelloni aperti a colori, un po’ del mare della riva. Tutto questo che è sfondo è sfocato, cioè poco nitido. In primo piano invece, ben a fuoco, c’è un uomo di carnagione scura, un africano. Lui porta con sè, che pende dal braccio destro, una specie di bacheca di legno che espone occhiali da sole, collane, orologi e radioline. Ad essa sono attaccate in sacchetti di corda traforati secchielli verdi e racchette con palline colorate. Sulla spalla sinistra porta un borsone scuro con la tracolla rossa a cui è appeso un sacchetto di plastica. Lui è alto, indossa una maglietta grigio chiara con la scritta DA CICCIO GIOCATTOLI; intorno ad un polso ha un braccialetto di corda rosso, il capo è coperto da un cappello bianco la cui visiera nasconde la fisionomia del volto, dalla tasca dei pantaloni chiari pende un asciugamano. Lui è chinato per vendere la merce ad alcuni ragazzi sotto un ombrellone. I ragazzi sono tre, di cui una donna e un bambino, e sono ritratti di schiena e testa in su.

Secondo scatto. Sempre lui. Trecento millimetri di focale, dall’alto. Lui allunga il braccio verso il bambino che gli porge del danaro col pugno chiuso della mano. Il centro dell’inquadratura sono le mani che s’incontrano, una bianca l’altra nera. Da una parte c’è lui, mezzo busto e occhiali da sole sotto il cappello; dall’altra il bambino, dieci anni circa, in costume rosso. Lo sfondo è il mare grigio verde dietro di loro.

Terzo scatto. Lui è adesso molto vicino. Lo fotografo sempre dall’alto, dalla strada. Invece lui è in spiaggia. Lo prendo dall’alto e posiziono la sua immagine in alto a sinistra dell’inquadratura. In basso e a destra essa è occupata dall’apertura di un ombrellone coloratissimo a bande rosso verde e giallo oro. Questi sono i colori della bandiera del Senegal…

Quarto scatto. È Chico, uno dei più giovani tra quelli che vendono qualcosa nella spiaggia di Giardini Naxos. Sono sempre gli stessi, sei sette, che fanno avanti e indietro per poco meno di un chilometro circa di spiaggia, mattina e pomeriggio. C’è anche con loro qualche donna di colore, le stesse che si rivedono la sera nel tratto di strada che lega Naxos e Recanati. Hanno una due bancarelle, e vendono soprattutto roba di artigianato.

Ritorniamo a Chico. Uso sempre lo zoom. Prendo la mira e lo butto tutto a sinistra. Ha una corporatura possente, alto due metri. L’apertura del diaframa è cinque punto sei, mi garantisce un’immagine sempre meno nitida dal punto di fuoco, cioè dietro Chico. A sinistra, nel mirino, c’è lui, quindi. Al centro la sabbia e il bagnasciuga, a destra in secondo piano una signora in costume intero nero, seduta su di una di quelle sedie pieghevoli di plastica bianche, proprio sulla riva, con le gambe a mollo. Chico invece cammina, e sembra che plani sopra la sabbia d’oro, e ondeggi da una parte all’altra. Sulle spalle tiene uno zaino, su una mano una borsa, sull’altra mazzi di CD legati insieme da un elastico giallo; indossa una maglietta smanicata azzurra con vari disegni neri e delle linee bianche sulle spalle e una N in mezzo al petto; pantaloni chiari, scarpe da tennis e capelli colorati biondo scuro che cadono a caschetto sulla fronte. Faccio CLIK per due volte, ma Chico si è accorto di tutto.

Normalmente, se sei un onesto cittadino e ti fotografano per strada, e non conosci il fotografo, incominci a pensare. E pensi a due cose, subito. Uno: pensi di essere affascinante e bello (lo hai pensato sempre, in verità, ma questa volta se n’è accorto qualcun altro), sei bello, affascinante e fotogenico. Questo pensiero di fa sentire in forma. Oppure, due: pensi che hai di fronte un maniaco, una specie di serial killer che immortala le sue vittime prima di appenderle in soffitta a testa in giù. Lui dovrebbe riporre le fotografie sulla parete della sua stanza (il serial killer vive ancora coi genitori e legge Dylan Dog), le ingrandisce e poi… zàcchete! Poi, l’ossessione comincia. In questo secondo caso ti reputi una persona davvero sfortunata, anzi: sfigata! Ti arrabbi e vorresti chiamare la Police. Proprio a te doveva capitare! Non dormi la notte e tutto il resto … Eppure, se sei un senegalese, hai un motivo in più per incazzarti. Se uno sconosciuto ti fotografa per strada cominci ad avere paura perché ti ricordi di non aver rinnovato il permesso di soggiorno. Allora, quella macchina lì, puntata su di te, immigrato africano, è come se fosse un fucile, potrebbe spazzarti via, in un solo istante, basta che ti colpisca.

Credo, più o meno, questi siano stati i pensieri di Chico quando ha capito di essere nel mirino. Lui mi ha visto che io lo vedevo dentro il rettangolo della Nikon. Ho perso tempo a mettere a fuoco (uso macchine manuali), premo il pulsante e lui è andato al contrattacco.
– Tu non fare questo, non puoi … – ha cominciato a gridare dalla spiaggia. Stavo sul parapetto della strada e lui s’avvicinava camminando sopra delle pietrone a ridosso del muro.
– Ok, tranquillo. – gli faccio. Lui non è contento per niente, sale fino in strada, mi toglie dalle mani la reflex e se la porta didietro, ridiscende in spiaggia e raggiunge quello con la maglietta DA CICCIO GIOCATTOLI.
– Tu non fare questo, diceva, io conoscere… conoscere… fare otto anni questo … otto anni fotografo – e nel dire queste cose aveva premuto il bottoncino nella parte inferiore della reflex, senza esitazione, aveva girato la manovella per ritirare il negativo e tiratolo fuori aveva richiuso la Nikon e … entra in scena una terza persona. Ecco che, non so da dove e come, appare una specie di investigatore in borghese.

– Cosa succede? – dice un tizio in maglietta scura e pantaloncini. Questi si avvicina e mostra un distintivo della polizia zittendo un po’ tutti e creando curiosità intorno. Lo mostra e lo mette subito via come nei film.
– Di chi è la macchina?, continua.
– Mia, dico.
– Io non foto … non fare questo!, dice l’africano tenendo stretti macchina e rullino.
– Va bene, ma te lo dà lui il rullino, non puoi prenderlo tu! L’investigatore prende la Nikon e me la porge.
– Scusa come ti chiami, faccio al senegalese.
– Chico … non volere foto …
– Ok. Non voglio mettere in difficoltà nessuno, puoi tenerle!
– Cosa è successo?
Si decide che Chico porta insieme a me il rullino dal fotografo per togliere via le foto in cui è ritratto. A condizione Chico si calma.
– Dài, lui (e indica me) non fa niente lui, dice l’investigatore.
Saliamo la scala che porta in strada.
– Sviluppa le foto e lui si prende quelle sue, dice il policeman, e se ne va dalla parte opposta, e scompare così come era comparso: nel nulla. Io invece cammino a fianco di Chico, e gli dico: Chico, davvero, non c’è alcun problema, puoi prendere il rullino, puoi prenderlo.
Chico lo tiene stretto in mano, si volta, non dice niente e va via.
Io invece continuo dritto un po’ frastornato dal sole.

© GT


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