I catanesi dell’Ottocento li chiamavano Maledettini, e Federico De Roberto li ritraeva dediti a pasti pantagruelici e festini da postribolo: oggi i monaci sono scomparsi, ma il monastero dei Benedettini rimane un tempio di umanità grottesca. I quartieri circostanti, che un tempo ospitavano amanti e lenoni dei monaci, si sono trasformati in budelli serpeggianti dove il marciapiede non c’è o, se c’è, è invaso da macchine parcheggiate, tavolini di bar, banconi su cui i macellai sminuzzano mastodontiche fette di carne di cavallo all’aria del traffico mattutino. Strade da attraversare mentre le macchine sbucano da ogni direzione a tradimento, viali alberati da percorrere come campi minati di foglie morte, tra cui si mimetizza sempre qualche regalino per le scarpe. Chi riesce a sopravvivere a tutto questo può arrivare in tempo per le lezioni. E godersi il teatrino quotidiano, perché lo spasso non manca mai.
Ci sono i fricchettoni, i cacciatori di crediti, le madri di famiglia in cerca di svago e i fuoricorso loro coetanei in cerca di una laurea, ci sono ragazze con la faccia coperta di stucco e ragazzi con la bava alla bocca, ci sono la bella bionda e il palestrato pronti per miss e mr. Benedettini. Tutto ricorda la fauna dei licei americani in quelle vecchie serie tv anni ’90. Ma gli attori di prim’ordine in questo teatrino sono gli aspiranti bohémien. Loro, più di ogni altro, incarnano lo spirito peccaminoso dei Maledettini.
Appollaiati di fronte all’aula di Letteratura italiana, si confrontano sulle loro complesse letture estive che, una volta in aula, non possono fare a meno di citare appigliandosi disperatamente a ogni brandello di spiegazione che riescono a decifrare, fermamente convinti della vastità della loro cultura. Per cui Petrarca viene subito individuato come il diretto anticipatore di Verlaine, la tragedia alfieriana si lega spontaneamente al cinema russo sperimentale degli anni ’60, Ugo Foscolo viene ricondotto alla Bohème e a Marcuse, la Storia della colonna infame porta naturalmente alla memoria il miglior Dylan Dog. Una lezione sul Romanticismo è sempre un’ottima occasione per sfoggiare una silloge poetica appena terminata, e ogni volta che si sente un professore-mi-viene-in-mente bisogna prepararsi: sarà l’inizio di un delirio lubrico di ostentazione, di domande che non sono mai domande, ma affermazioni di un’ovvietà scoraggiante. Presto le citazioni dotte si scoprono essere patine dorate sotto cui si cela il grande peccaminoso vuoto dei Maledettini, e bohémiens farlocchi che parlano solo per tautologie.
Ma la cosa più inquietante è che i professori, trovandosi di fronte a quest’orgia di ostentazione in cui l’ignoranza viene sbandierata con orgoglio, si sentono in dovere di abbassare gli standard dell’insegnamento. E fa ghiacciare il sangue nelle vene pensare che i nostri bohémiens a loro volta si conquisteranno un posto dietro una cattedra, e spargeranno per la Sicilia lo spirito dei Maledettini, rendendo la prossima generazione di studenti ancor più grottesca e peccaminosa di quella attuale. Il loro peccato più grande? Non sanno di non sapere, e fanno di tutto per dimostrarlo.
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