Via D’Amelio, cosa resta dopo l’ultima sentenza Esecutori, mandanti, depistaggi e l’agenda rossa

Un altro punto, a 25 anni di distanza. Il quarto processo sulla strage di via D’Amelio – in cui morirono Paolo Borsellino e cinque uomini della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina si è concluso con quattro condanne (i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino all’ergastolo e i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci a dieci anni). 

Ma a far discutere maggiormente è stata l’unica prescrizione, quella che la Corte d’Assise ha deciso per Vincenzo Scarantino. Il falso pentito accusato di calunnia, a cui però, a differenza degli altri due condannati, è stata concessa un’attenuante: i giudici hanno riconosciuto che è stato indotto a dare una versione dei fatti falsa. Informazioni inventate che avevano portato, nei processi precedenti, alla condanna di sette persone che nulla c’entravano con la strage del 19 luglio del 1992. 

Fabio Repici, avvocato messinese, ha rappresentato Salvatore Borsellino durante il processo. Insieme a lui ripercorriamo 25 anni di indagini e proviamo a ricostruire cosa, fino a ora, è stato accertato e cosa è stato smentito rispetto alla morte del giudice e della sua scorta. 

Come è stata riscritta la storia della strage di via D’Amelio con la conclusione del Borsellino quater? Cosa resta in piedi delle precedenti sentenze e cosa è stato spazzato via?
«La sentenza del Borsellino quater abbatte integralmente quella del primo processo e gran parte del Borsellino bis, che erano fondate sulle dichiarazioni di Scarantino. Rimangono in piedi le condanne dei mandanti interni a Cosa Nostra, quelle del terzo processo durante il quale furono processati e condannati i componenti della Cupola».

Viene invece riscritta l’esecuzione materiale della strage.
«L’esecuzione è stata in parte stravolta dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza (pentito del gruppo dei Graviano, che ha smentito quanto raccontato da Scarantino ndr), che hanno portato a identificare esecutori materiali diversi, a partire dallo stesso Spatuzza. Quest’ultimo, da testimone oculare, ha riferito che il 18 luglio, il giorno prima della strage, consegnò ad alcuni uomini dei Graviano la Fiat 126 che sarebbe stata imbottita di esplosivo e poi usata in via D’amelio. Ha raccontato che in quel garage si trovava un soggetto estraneo a Cosa Nostra, che lui non conosceva e che non avrebbe incontrato mai più. Spatuzza riconosce più avanti, ma solo in via dubitativa, questo soggetto in Lorenzo Narracci (indagato e archiviato dalla Procura di Caltanissetta ndr), funzionario del Sisde a Palermo in quel momento e vicino a Bruno Contrada».

Perché è così importante il riconoscimento dell’attenuante per Scarantino?
«Scarantino, e quello che si portava dietro, sono stati il nodo centrale per tutto il processo. Per la Corte è stato provato oltre ogni ragionevole dubbio che sia stato determinato a fare le false dichiarazioni. Questo significa che altri hanno pensato a cosa avrebbe dovuto dire. All’inizio del procedimento, al momento della richiesta di misura cautelare, sembrava che anche la Procura fosse possibilista sul ruolo di soggetti istituzionali. Alla fine però, come è emerso dalla requisitoria, per la Procura sembra che Scarantino abbia fatto tutto da solo. Per i giudici alla fine, non è stato così».

Scarantino ha raccontato di aver subito violenze e minacce dai poliziotti che lo hanno gestito. A livello giudiziario sono stati riconosciuti i responsabili del depistaggio?
«Scarantino è stato gestito dal gruppo di polizia Falcone-Borsellino, guidato da Arnaldo La Barbera (morto nel 2002 e quindi mai indagato, nel 2010 si è scoperto essere stato a servizio dei servizi segreti del Sisde ndr). Dopo l’apertura dell’indagine del Borsellino quater, la Procura di Caltanissetta ne aprì un’altra in cui furono iscritti i collaboratori di Arnaldo La Barbera: Vincenzo Ricciardi, Mario Bo e Salvatore La Barbera. Ma l’indagine, su richiesta della stessa Procura, fu archiviata». 

Nelle indagini sul depistaggio sono mai stati tirati in causa livelli superiori?
«No, ma c’è la certezza logica che il progetto di depistaggio non si sia fermato ad Arnaldo La Barbera, che non era il capo della polizia, ma solo della Mobile di Palermo. Era stato nominato da altri a capo del gruppo Falcone-Borsellino. Nello stesso periodo lo Stato impedì a Rino Germanà di essere assegnato alla Criminalpol, un incarico che per Germanà era stato voluto dallo stesso Borsellino. Trasferito a Mazara, scampò a un agguato a colpi di kalashnikov da parte di un commando formato da Matteo Messina Denaro, Giovanni Brusca e Giuseppe Graviano. Come minimo per il depistaggio ci sarebbe da valutare la responsabilità dei vertici di allora: Vincenzo Parisi, capo della polizia, e Luigi Rossi, capo della Criminalpol». 

Resta al momento qualcuno indagato per il depistaggio delle indagini su via D’Amelio?
«Nel dibattimento del Borsellino quater è stato detto che è stato aperto un fascicolo di indagine su alcuni poliziotti del gruppo Falcone-Borsellino, sottoposti a La Barbera, Ricciardi e Bo».

Perché gli altri due falsi pentiti, Francesco Andriotta e Calogero Pulci, a differenza di Scarantino, sono stati condannati a dieci anni per calunnia?
«Pulci non c’entra nulla con Scarantino. Collabora tra il primo e il secondo grado del Borsellino bis, racconta di aver appreso da Gaetano Murana (assolto in primo grado e condannato all’ergastolo in secondo al Borsellino bis ndr) di aver partecipato alla strage. Una ricostruzione smontata dalle dichiarazioni di Spatuzza. Per questo Pulci oggi viene condannato per calunnia. Andriotta è invece un detenuto pugliese, in carcere per omicidio per fatti che non c’entravano niente con Cosa nostra. Ma si è ritrovato in cella con Scarantino, e in quel periodo ha deciso di collaborare con il gruppo Falcone-Borsellino, riferendo che Scarantino gli aveva confidato di aver rubato la 126 che poi sarebbe esplosa in via D’Amelio. Dopo le dichiarazioni di Spatuzza, anche Andriotta ha riferito di essere stato minacciato dai poliziotti. Ma, a differenza di Scarantino, Andriotta non è mai stato al 41bis, non ha subito le torture a Linosa, e aveva davvero un possibile interesse per avere sconti di pena».

Cosa sappiamo dell’Agenda rossa di Paolo Borsellino alla luce dell’ultimo processo?
«Sono stati sentiti tutti quelli che hanno avuto a che fare con la borsa di Paolo Borsellino. Per la prima volta in un processo si è tentato di cercare la verità su questa vicenda, nonostante, già il 25 luglio del 1992, e ne abbiamo dato prova nel processo, Agnese Borsellino, la moglie di Paolo, denunciò pubblicamente che l’agenda rossa era scomparsa e che era un fatto inquietante». 

Cosa hanno detto i testimoni sentiti?
«Giuseppe Ayala (uno dei magistrati che arrivò per primo in via D’Amelio ndr) ha raccontato di aver avvistato la borsa in mezzo alle fiamme, di averla tenuta in mano e di averla consegnata a un ufficiale. Prima ha sostenuto che quest’ultimo fosse in divisa, poi in borghese. In ogni caso ha detto di non essere in grado di indicare chi fosse questa persona e di non avere mai aperto la borsa. Nel 2005 dallo studio di un fotografo è venuto fuori uno scatto che ritraeva Giovanni Arcangioli, ufficiale del nucleo operativo dei carabinieri di Palermo, in via D’Amelio con la borsa in mano. (Arcangioli è stato indagato in passato per questi fatti e prosciolto ndr). Noi abbiamo messo insieme tutti i frame video disponibili che mostrano Arcangioli passare in mezzo a cadaveri e macchine che bruciano, impegnato solo a portare via la borsa. Sentito in aula, Arcangioli non ha saputo dire cosa avesse fatto della borsa e come la borsa fosse poi tornata nella macchina di Borsellino, dove alla fine è stata presa in consegna dall’ispettore di polizia Maggi. Su tutti questi passaggi la prima relazione di servizio risale alla fine del 1992. Da luglio fino alla stesura della relazione, la borsa rimase presumibilmente su un divano dell’ufficio di La Barbera, alla mercé di tutti».

Cosa scriveva Borsellino nell’agenda rossa?
«Per le dichiarazioni di amici e famigliari, sappiamo che Borsellino, da subito dopo la strage di Capaci, scriveva in modo frenetico tutte le cose più delicate che scopriva. Nei mesi prima di morire Borsellino aveva confessato alla moglie che il generale Subranni (ex capo del Ros ndr) era punciuto; che il 1 luglio era stato al Viminale e aveva respirato aria di morte; che in quel periodo stava vedendo la mafia in diretta, e che doveva tenere abbassate le serrande in camera da letto perché potevano essere visti al castello Utveggio. Tutte cose che Agnese Borsellino ha dichiarato in aula prima di morire». 

Secondo lei, ci sono ancora margini per aggiungere altri tasselli di verità sulla morte di Paolo Borsellino e della scorta?
«Sì, ma dipende dalla volontà della Procura di Caltanissetta. Ci sono ancora soggetti utili da sentire, basti pensare ai fratelli Graviano. Sull’agenda rossa si potrebbe aprire un altro processo visti i nuovi elementi acquisiti. E poi rimane il più importante degli scenari: la partecipazione di apparati deviati dello Stato alla strage, che è un’inferenza logica dopo il provato depistaggio su Scarantino». 


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