Una struttura di proprietà dell'Autorità portuale di Catania, ristrutturata con fondi europei e finanziamenti dall'imprenditoria cittadina. È l'edificio di via Dusmet, che finisce oggi al centro di una denuncia di Catania bene Comune, dei comitati Porto del sole e No pua, e della redazione de I siciliani giovani
Vecchia dogana, da polo gastronomico a discoteca I comitati: «Cosa pubblica trattata da bene privato»
Da polo enogastronomico a vocazione turistica a discoteca privata. È la parabola della Vecchia dogana, la struttura di proprietà dell’autorità portuale di Catania ristrutturata in project financing col Comune etneo e i privati con l’obiettivo di trasformarla in punto di attrazione per cittadini, visitatori e crocieristi. «Nonostante gli annunci, abbandona la vocazione turistica, viene chiusa all’accesso libero della gente e diventa locale notturno», denunciano, in un comunicato congiunto, il movimento Catania bene comune, i comitati Porto del sole e No pua e la redazione de I siciliani giovani.
È con un decreto datato 2006 che la Regione Sicilia stabilisce un finanziamento di tre milioni di euro da destinare all’autorità portuale etnea per la realizzazione del progetto di «recupero e ristrutturazione dell’edificio denominato ex Vecchia dogana». Un piano ampio, del valore complessivo di oltre otto milioni di euro. Dei quali quattro milioni e mezzo stanziati dai privati, 610mila euro dall’autorità portuale e, appunto, tre milioni di euro regionali. Soldi pubblici, provenienti dall’Europa, assieme a fondi che venivano dall’imprenditoria. E, nello specifico, da un’associazione temporanea di imprese che vedeva capofila la Evirfin spa, della famiglia Virlinzi, assieme a Keynesia srl, Operes srl e Cpc spa.
Un’idea di «pubblica utilità» secondo i dirigenti regionali che hanno stanziato le somme. E che hanno permesso, nel 2011, di arrivare all’inaugurazione di quella che viene definita «la prima e unica città del gusto della Sicilia». Ma che già pochi anni dopo, nel 2014, manifestava i segnali di un fallimento in corso. Botteghe sfitte, locali chiusi e nessun visitatore. A mancare sarebbe stato anche il supporto dei turisti approdati con le crociere nella struttura portuale catanese. Troppo pochi, secondo i commercianti, per sostenere lo sforzo economico di un affitto nella struttura che dà su via Dusmet. Ma alle denunce dei commercianti non arriva, secondo i comitati che raccontano dello stato odierno della Vecchia dogana, «nessuna risposta, nessuna idea di rilancio».
Almeno fino a quando la società Vecchia dogana spa viene rilevata dall’imprenditore Mario Paoluzi, amico e socio dei Virlinzi, che «decide di concedere buona parte dei locali a una discoteca», si legge nella nota diffusa alla stampa. «L’edificio risulta così chiuso in entrambe le corti – prosegue il comunicato – I corridoi, le scale mobili, i passaggi sono sbarrati da pannelli di cartongesso e compensato. All’ingresso non ci sono più gli sportelli turistici ma i botteghini per pagare l’ingresso alla discoteca. La corte ovest è occupata da un enorme palco fisso. I pochi uffici rimasti devono fare i conti, anche la mattina, con i soundcheck per la serata».
«Niente di male se quello non fosse uno spazio di proprietà pubblica», aggiungono movimenti e comitati. A fare da appendice a questa storia ci sono le dichiarazioni del primo cittadino Enzo Bianco e del commissario straordinario dell’autorità portuale Cosimo Indaco in merito alla possibilità di creare un waterfront sul modello della città statunitense di Miami. «La vicenda recente della trasformazione in discoteca ci appare paradigmatica. Sono chiari i rischi che corre la città circa il modello culturale e turistico offerto e le occasioni di sviluppo che possono essere mancate, nonostante i cospicui finanziamenti», arringa la nota. Che si conclude con richieste di spiegazioni a tutti gli enti coinvolti – Comune, gestori del porto, soprintendenza – e con la proposta di «aprire un confronto con la città». Per rivedere le politiche di gestione della Vecchia dogana che, fino a questo momento, si sarebbero rivelate «fallimentari».