Il monumento di piazza Minerva, nella capitale, si è svegliato stamattina con una zanna rotta. Un presunto atto vandalico che ha provocato dispiacere in cittadini e turisti romani, ma anche a Catania, tra amanti dell'arte ed esperti a conoscenza del legame con il pachiderma di basalto e l'obelisco di piazza Duomo
Vandalizzato l’Elefantino di Roma gemello del Liotro L’opera di Bernini che ispirò la statua-simbolo etnea
Una zanna rotta durante la notte. E ritrovata stamattina dagli agenti della polizia municipale su segnalazione di due turiste spagnole. È stato il risveglio dell’Elefantino della Minerva, a Roma, opera di Gian Lorenzo Bernini che ricorda da vicino il Liotru, simbolo di Catania. Una somiglianza non casuale. La statua dell’elefante con annesso obelisco sulla schiena, che dal 1667 fa mostra di sé a piazza Minerva, nella capitale, sarebbe stato infatti il modello su cui l’architetto palermitano Giovanni Battista Vaccarini avrebbe sistemato, a metà del ‘700, la statua di piazza Duomo nel capoluogo etneo. Uno dei tanti lavori di Vaccarini per ricostruire una città devastata dal terremoto del 1693 e di sicuro uno di quelli a cui i catanesi sono più affezionati. Ma che fa il paio con il gemello romano. Entrambi, secondo gli studiosi, a loro volta ispirati all’iconografia di un romanzo allegorico del tardo ‘400.
Le similitudini tra le due statue cominciano prima ancora della loro attuale sistemazione. Se a Roma Bernini ha realizzato lui stesso la statua dell’elefante, l’obelisco che il celebre scultore gli ha messo in groppa proviene da un santuario romano del 43 avanti Cristo dedicato alla dea Iside. Quasi la stessa storia dei gemelli catanesi. «L’elefante etneo è una scultura che proviene da un monumento romano, forse dal circo o dall’ippodromo – spiega a MeridioNews Dario Palermo, archeologo e docente all’università di Catania – L’obelisco, al contrario di quello che si può pensare, non è egiziano ma romano. Riporta dei geroglifici ma sono privi di senso. Ornamentali, insomma». Un obelisco simile oggi si trova anche nel cortile del Castello Ursino e forse queste stesse sculture potrebbero essere una prima copia romana. «È possibile che anche questi siano stati presi da un circo – continua il professore – Nelle stesse strutture a Roma, nella parte centrale, si trovavano figure di animali e obelischi e quindi potrebbero essere stati copiati anche a Catania».
Da allora, elefante e obelisco etnei trascorrono ognuno la propria esistenza, separati. Mentre nella capitale il monumento di stile egizio è orfano del suo pachiderma fino all’arrivo di Bernini, che fa realizzare l’Elefantino nella seconda metà del ‘600. Sull’animale di marmo decide di installare l’obelisco ed entrambi troneggiano a piazza Minerva. Ammirati da cittadini e turisti, fino allo sfregio di ieri notte. A Catania, intanto, passa quasi un secolo. Arriva il terremoto, la città è squassata e a ricostruirla con gusto viene chiamato Vaccarini, architetto con un passato di studi a Roma, anche sulle opere di Bernini. È lui a decidere di porre l’obelisco sopra l’elefante e di porli entrambi in piazza Duomo. Chissà se per ispirare il lavoro dei governatori cittadini occupati proprio di fronte, a palazzo degli elefanti. «L’elefante è il simbolo dell’esperienza e della forza, mentre l’obelisco della saggezza egizia – continua Palermo – Due elementi che a piazza Minerva, dea romana della saggezza, stanno benissimo». E che avrebbero anche altri rimandi simbolici: «Alla massoneria, così come di carattere alchemico», spiega il docente.
Del tutto originale, invece, sembra essere il nome del simbolo etneo. «Liotru verrebbe da Eliodoro, un mago della Catania bizantina che, secondo la leggenda, si spostava sul suo elefante volante», conclude Dario Palermo. Viaggi fantastici dalle falde dell’Etna a Costantinopoli, compiuto da questo figlio di una nobile famiglia catanese. Secondo i racconti, sarebbe stato proprio Eliodoro a scolpire l’elefante, prima di essere bruciato vivo con l’accusa di stregoneria e negromanzia. Per cancellare ogni traccia della sua fascinazione sul popolo, il vescovo Leone II avrebbe poi fatto portare la statua dell’elefante fuori dalle mura della città. Con scarsi risultati. Che passano da Vaccarini e arrivano fino ai nostri giorni.