Chissà che non dovremo aspettare il 2035 prima di avere un punto di vista chiaro sull’assedio di Gaza, concluso da pochi giorni e durato circa un mese. Ventisei anni, come quelli intercorsi tra i massacri di Sabra e Chatila (1982) e l’uscita di “Valzer con Bashir”, il film di Ari Folman che tenta di dare un giudizio personale, ma definitivo, su un evento di violenza pura e gratuita (sebbene già una rapida scorsa su Wikipedia basti a rivelare l’indecisione rispetto al numero delle vittime di quelle stragi: dai 700 ai 3500).
Durante la guerra civile libanese, i falangisti cristiani, appoggiati da Israele – ministro della difesa era Sharon, che non fece alcuna opposizione – penetrarono nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, alla periferia di Beirut e si abbandonarono ad efferatezze indiscriminate su civili inermi: bambini, donne, anziani. Il tutto nell’arco di tre giorni, tra il 16 e il 18 settembre 1982. Ari Folman era a quei tempi un militare di leva inviato a uccidere, in uno scontro con Palestinesi e Siriani del tutto inutile sul piano strategico: una mattanza che insanguinò una nazione dove convivevano varie etnie e varie comunità.
Folman, come già in “Persepolis”, il fumetto di Marjan Satrapi divenuto film, drammatizza e circoscrive un’esperienza autobiografica. Partendo dallo spunto di una memoria amputata e recalcitrante, mostra la difficoltà a ricostruire il flusso di ricordi legati al fronte. Inizia così un percorso di approfondimento interiore, mette ordine tra i files (un po’) nascosti della sua esistenza. Il passato di violenza e di sofferenze affiora attraverso la voce di vecchi amici, di testimoni, di commilitoni, restituendo un quadro coerente e complesso. Farci i conti diventa per il regista indispensabile. Nessuna indulgenza verso il suo paese, Israele. Magari molti lo guarderanno come il solito “pacifista”, per di più israeliano, idealista quanto distante dalla realtà, utopista e velleitario, forse antipatriottico. Lo rinchiuderanno tra questi paletti terminologici e concettuali. Ma il suo racconto è sofferto e autentico.
Ad un certo punto c’è una scena davvero significativa che taglia le gambe a qualsiasi posizione che rivendichi una presunta ”intelligenza” della guerra contemporanea. Un commando (commando di cosa poi? Terroristi? Guerriglieri? Assassini?) uccide quattro soldati israeliani in pausa davanti a un bar in un posto qualsiasi del Libano infiammato dalla guerra e occupato dalle truppe. La vendetta israeliana dev’essere veloce, eppure chirurgica. La macchina su cui il commando viaggia è nel puntatore superpreciso del congegno bellico: il grilletto scatta. Solo che a cadere è un anziano in groppa al suo asino. Questa è la guerra vista dal coraggioso e onesto Folman: una faccenda sporca che colpisce sopratutto i più deboli e indifesi. L’intensità e la vividezza del racconto, grazie al realismo dei disegni assemblati da David Polonsky, evitano la retorica del pacifismo a ogni costo. Responsabili e vittime, nel caso di Sabra e Chatila e della guerra del Libano in generale, sono ben distinti; occorre quindi renderne una diffusa consapevolezza. Con quelle stragi l’umanità ha oltrepassato, come in altri momenti del suo percorso, soglie di imbarbarimento irredimibili che l’hanno condotta a piantare la bandiera della vittoria, di una vittoria etnica, religiosa, ideologica, su schiere di cadaveri di innocenti.
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