Professor Pioletti, il suo giudizio sul DDL Gelmini è radicalmente negativo: l’ha ribadito più volte, pubblicamente. Eppure molti dicono che la riforma affronta problemi non più prorogabili all’interno dell’Università.
«Leggo le vostre domande sotto un cielo plumbeo, quello che sta coprendo Parigi. Esattamente un anno fa partecipai qui a una grande manifestazione che si tenne coinvolgendo tutte, dico tutte, le componenti universitarie, contro una serie di provvedimenti che erano stati accompagnati da un virulento attacco che il 22 gennaio 2009 Sarkozy aveva sferrato contro il sistema universitario pubblico accusato di sprechi, neghittosità, scarsa produttività, fannullaggine. Stessa tattica di quella adottata in Italia: additare all’opinione pubblica i mali dell’Università – che, per carità, ci sono, ma, mi chiedo, per responsabilità di chi soprattutto? Senza dire che è sempre sbagliato fare di ogni erba un fascio – per spianare la strada alla destrutturazione dell’Università pubblica. L’anno scorso la mobilitazione in Francia è stata quanto mai estesa e combattiva, così come in Italia, in Grecia e in Austria, quest’ anno in Germania».
In Italia, però, sembra che la protesta tra studenti e docenti sia scemata.
«Sono movimenti che vivono di flussi e di riflussi e che d’improvviso riprendono, quando li consideri ormai esauriti. Su questi movimenti l’informazione in Italia, con poche, pochissime eccezioni, tace o balbetta, e il dibattito, asfittico e di basso livello sullo stato del sistema d’istruzione pubblico, si limita a qualche querimonia o a una stupefacente rassegnazione alle compatibilità dell’esistente. Il DDL Gelmini è solo un segmento d’una linea che viene da lontano e che va verso il disastro. E le sue avvisaglie già si vedono. Dopo un’assordante campagna condotta da questo Governo e dai più importanti organi d’informazione contro il “baronato”, con il DDL Gemini, appunto, tutto il”potere” è dato al “baronato”, dai concorsi alla gestione di quel che dovrebbero essere le Scuole o Facoltà, in mano a organi ristretti “deliberanti”. Di più. S’accresce il “potere” dei Rettori e s’incrementa la rappresentanza nel Consiglio d’Amministrazione di quello strato imprenditoriale e tecnocratico che non da oggi in Italia sta dando prova, con le dovute eccezioni, di clientelismo, affarismo privato e corruzione».
Uno dei punti più controversi del DDL prevede che i Consigli di amministrazione degli atenei dovranno essere composti da una quota consistente di “manager” esterni all’ateneo. Anche il rettore Recca ha detto di nutrire forti perplessità: «nel nostro territorio, si tradurrebbe nella presenza dei politici». Come giudica l’insieme dei cambiamenti prescritti per modificare la cosiddetta “governance” degli atenei?
«Sulla governance degli atenei occorre essere chiari. Bisogna capire a che cosa sono funzionali le modifiche proposte. Il DDL Gemini è solo un segmento d’un progetto coltivato dalla Associazione Treelle, dalla Confindustria e da settori dei Partiti trasversali a tutti gli schieramenti. Di cosa si tratta? Siamo ormai entrati in un nuovo paradigma relativo sia alla concezione dei saperi e alla loro trasmissione/circolazione, sia al sistema di finanziamento dell’Università pubblica, anzi del sistema d’istruzione pubblico nel suo insieme. Per il primo aspetto: è ormai dominante fra le classi dirigenti l’idea che i saperi contano se procurano profitto immediato. Il sapere nel suo insieme non è più inteso come fattore di progresso e di crescita civile, fattore basilare della costruzione dei profili della cittadinanza, ma come merce di scambio, senza la cui dimensione esso è inutile e quindi da tagliare in quanto costo. Per il secondo aspetto (scilicet, il sistema di finanziamento), ormai lo Stato co-finanzia, per il resto occorre affidarsi al cosiddetto territorio che, com’è ben noto, non è omogeneo, per risorse, vocazioni, imprese, in tutta l’area nazionale».
La cosiddetta “ regionalizzazione degli atenei”…
«Sì, se ne intravedono i primi segnali e rappresenterà il colpo finale all’unitarietà, con tutte le sue specificità, del sistema d’istruzione superiore pubblico in Italia. Occorrerà aumentare le tasse, e, in barba agli artt. 3, 33 e 34 della Costituzione italiana, alla Carta dei Diritti del Cittadino Europeo (artt. 14 e 15: diritto allo studio e libera scelta del proprio lavoro) e ai fondamentali principi libertari di uguaglianza, inviolabili in uno Stato di diritto democratico, le famiglie – bella politica per la famiglia, di cui tanto si chiacchiera! – dovranno, se possono, pagare sempre più anche per iscrizioni e affitti nelle sedi più lontane, altrimenti niente istruzione superiore, niente laurea, eppure l’Italia avrebbe bisogno di più laureati! Tutto questo lo chiamano liberalismo».
Gli appelli alla mobilitazione non bastano a far sorgere un movimento di protesta. Il rettore, ad esempio, ha recentemente riportato che le adesioni allo sciopero generale indetto dal sindacato Flc-Cgil si possono contare sulla punta delle dita. Come vede le prospettive di un movimento di opposizione alla riforma Gelmini? E’ ottimista o pessimista in materia?
«Le adesioni agli scioperi indetti da qualche sindacato sono poco indicative. Da anni non c’è più un sindacalismo rappresentativo dei docenti universitari. Regge quello che ha come riferimento il personale Tecnico amministrativo. Le cause sono tante. La mancata adesione agli scioperi è indice più di sfiducia che di consenso».
Indipendentemente dalle valutazioni sulla riforma Gelmini, ritiene che l’amministrazione dell’ateneo stia gestendo oculatamente l’attuale fase di difficoltà finanziarie? Cosa pensa del documento approvato dal Senato accademico all’inizio di dicembre e successivamente spiegato dal prof. Pignataro? E’ d’accordo con le misure adottate?
«Con i tagli governativi e al netto degli stipendi quel che è restato e, c’è da temere, resterà anche per il 2011 è veramente poco. La relazione del prof. Pignataro è chiara. Tutti gli Atenei, quale più quale meno, sono in difficoltà. Alcuni, storici e prestigiosi, presentano un bilancio in rosso. Il Rettore della Sapienza, prof. Frati, ha dichiarato, giusto o sbagliato che sia, che non intende procedere ad altri tagli, e ha preferito la gestione provvisoria, così come la Federico II di Napoli. La questione è che occorre distinguere fra razionalizzazione e tagli: la prima è una linea che deve portare a evitare sprechi e a realizzare comunque economie, i secondi vanno valutati a seconda di quel che si taglia. Oggi gli Atenei sono costretti a tagliare nell’organico docente e del personale, nella ricerca, nei dottorati, nell’offerta formativa, nei servizi, cioè in parti strutturali del sistema, tanto che si configura un modello d’Università elitario, con isole di eccellenza in alcune aree territoriali, e un generalizzato livello medio-basso di qualificazione nelle altre. Io sono per un’Università qualificata e di massa, di massa ma qualificata. È possibile se nel Paese cambiano le priorità d’investimento. Proprio su questo non solo il mondo accademico, ma l’intera società di coscienza civile dovrebbe mobilitarsi: un Paese che non investe in ricerca e formazione (ma dov’è il 3% del PIL indicato a Lisbona?) è paragonabile a chi taglia il ramo su cui è seduto».
Fra le conseguenze dei tagli alle risorse finanziarie per il nostro ateneo c’è la prospettiva di una chiusura dei corsi di laurea a Ragusa, di cui lei è stato un propugnatore. Cosa pensa a riguardo?
«Gli Enti Locali hanno fatto il passo più lungo della gamba e l’Ateneo di Catania non poteva reggere i costi dovuti sia alle inadempienze dei Consorzi sia all’insufficienza delle risorse che comunque essi possono investire, tali da non potere garantire un’offerta formativa qualificata. Perché il punto è questo: quale offerta formativa? Di qualità o di sopravvivenza? Collegata alla ricerca o a una ripetitiva e acritica trasmissione dei saperi? E poi, quali prospettive per i docenti? Possibilità di promozione o ricercatori/associati a vita? Quali servizi per gli studenti? Con l’applicazione della normativa sui cosiddetti requisiti necessari (in particolare la 544 inasprita con la 160) la Facoltà di Lingue, ad esempio, non potrebbe garantire un’offerta qualificata e diversificata. I decentramenti, così come concepiti con il Rettorato del prof. Rizzarelli, avevano, e avrebbero, senso se operati sulla base dei seguenti parametri: a. vocazioni dei territori; b. esistenza di un bacino di utenza; c. disponibilità di risorse finanziarie proiettate nel futuro, secondo piani pluriennali e relative a organico docente e personale tecnico amministrativo, supplenze, contratti e lettorati, borse di studio per soggiorni d’istruzione all’estero per gli studenti, assegni di ricerca, dotazione libraria, servizi; d. disponibilità di spazi per aule, laboratori, aule studio, studi docenti; e. esistenza d’una politica per il diritto allo studio degli studenti».
Non ci sembra che questi parametri siano stati rispettati. Cos’è avvenuto?
«È avvenuto che s’è abbandonato il metodo di una seria programmazione fondata su parametri, e si sono aperti Corsi di laurea senza criteri, se non quelli clientelari, elettoralistici e di interessi accademici di corto respiro. L’ Ateneo di Catania dal 2006-2007 ha giustamente messo un punto all’accumulo di crediti e posto i Consorzi di fronte alle loro disponibilità».
È favorevole all’ipotesi di un “quarto polo” universitario?
«Non vedo le condizioni soprattutto finanziarie per un quarto polo universitario in Sicilia, soprattutto se dovesse togliere risorse agli atenei esistenti. Potrei ricredermi solo in presenza di un progetto credibile sulla base dei parametri sopra indicati».
Un altro punto fondamentale del DDL riguarda l’accorpamento degli attuali Dipartimenti e Facoltà. La revisione dell’articolazione dipartimentale e per facoltà cosa potrà comportare nell’ateneo catanese?
«Non mi risulta che si sia ancora avviata una riflessione di largo respiro sui presupposti culturali, didattici e scientifici, delle scelte da operare. Bisognerebbe aver chiaro innanzitutto quale sarà la funzione delle singole strutture: a quale di esse saranno attribuiti i budget per le proposte di chiamate di posti in organico? Saremo incardinati nei Dipartimenti, non più nelle Facoltà? Visto che il DDL Gemini non è stato ancora approvato, il rischio che si può correre è quello di procedere oggi ad accorpamenti un po’ al buio. Spero che si evitino operazioni nominalistiche, che si cambino i nomi perché poi tutto resti come prima. Faccio un esempio: la questione non è in sé se esista la Facoltà X, ma se i contenuti della sua offerta formativa siano garantiti al meglio. La Facoltà di Lingue, ad esempio, è nata per dare nuovo impulso all’insegnamento e all’apprendimento delle lingue e delle culture straniere, fondamentali per ogni attività in un mondo sempre più globalizzato. Vogliamo rinunciarvi? Vogliamo non sviluppare, ancora una volta a mo’ d’esempio, gli studi delle lingue e delle culture orientali che da undici anni, con ottimi risultati, si sono aperti nel nostro Ateneo che era in forte ritardo su questo versante dell’offerta formativa? Oppure pensiamo ai Beni Culturali, a quel che significano nei nostri territori. Ragioneremo così?».
L’introduzione del numero programmato in tutti i corsi di laurea, assieme a un incremento di tasse e contributi , è stato confermata dal rettore come un fatto ineluttabile. Molti temono che si creerà confusione nell’organizzazione dei test d’ingresso. Se la chiamassero a far parte di una commissione creata ad hoc, cosa suggerirebbe per evitare la baraonda e il sorgere di iniquità nella valutazione?
«Ma il problema principale, permettetemi di dire, non è quello della confusione nell’organizzazione dei test d’ingresso (quello dei loro contenuti, sì) che non va comunque sottovalutata. La Commissione didattica d’Ateneo e il delegato del Rettore prof. Cozzo con il dirigente dott. Caruso stanno studiando le soluzioni più opportune. La questione è ben altra: a partire dal prossimo anno accademico si materializzeranno i tratti di un nuovo (in realtà vecchio) modello di Università, fondato sulla negazione del diritto allo studio (cosa diversa è l’orientamento per una scelta oculata della Facoltà dove iscriversi), su una nuova emigrazione verso altre sedi, su costi per gli studi tendenzialmente crescenti, sulla fine della pari dignità dei saperi e del “disinteresse” nello sviluppo della ricerca di base. Se questo progetto ammantato da logiche pseudo-efficientistiche andrà avanti, come pare, la crisi dell’autonomia (quella vera, cioè quella culturale e scientifica) dell’Università pubblica sarà definitiva, all’insegna di una subalternità crescente nei confronti di logiche privatistiche. Ecco una bella domanda alla quale di rado si risponde: perché in Italia le classi dirigenti e i governi, sia di centro-sinistra sia di centro-destra pur se con le dovute differenze (il Governo Prodi tagliò su aumenti e stanziò soldi veri per i ricercatori, si dica), non investono come si dovrebbe in ricerca e formazione? Ma si ha davanti il quadro dei livelli culturali in Italia? Ma si trova giusto che quel che vale per l’Università pubblica non valga per quelle private? I finanziamenti aggiuntivi per le Scuole private (e cattoliche) da dove vengono? Si potrebbe continuare. Quello che è insopportabile è che in Italia non vi siano un dibattito, un’elaborazione e un’iniziativa di mobilitazione all’altezza della gravità della situazione. Ha forse ragione Jacqueline Risset («Le Monde» del 28 febbraio, p. 14) quando parla di “ignavia”?».
La facoltà di Lettere ha deciso di tagliare quel 30% che è stato ridotto in tutte le facoltà dall’amministrazione centrale, in conseguenza ai tagli del Fondo per il Finanziamento Ordinario delle Università, riducendo il personale. Altre facoltà, invece, stanno provvedendo in maniera alternativa, attingendo da “tesoretti” accumulati nel corso degli anni, come Scienze Politiche. Si prospetta che, ai diciotto lavoratori licenziati a Lettere, se ne aggiungeranno altri dodici provenienti dalla facoltà di Lingue. Questo tipo di tagli sembra essere motivato dalla presenza di un maggior numero di dipendenti necessari per la gestione della struttura del Monastero dei Benedettini, che è sicuramente molto più impegnativa rispetto ad altre facoltà. Ma proprio perché la struttura è più impegnativa sarebbe necessario tagliare altre spese o, a meno che i dipendenti non siano stati in eccesso fino ad oggi, si rischia di causare molti disagi. Non ci sarebbero a suo avviso altre soluzioni possibili?
«Quella del precariato è una contraddizione dirompente, che rischia di divenire, se già non lo è, una condizione strutturale e non congiunturale del mercato del lavoro. Essa riguarda il ricambio sia dei ruoli docenti sia di quelli del personale TA, i quali ultimi nel nostro Ateneo, come rilevato nella relazione Pignataro, vedono percentuali tra le più basse fra tutti gli Atenei. Le Facoltà hanno seguito vie diverse, e Lingue finora ha evitato, pur con soluzioni anch’esse dolorose, tagli. Non è mio costume dare voti di condotta e occuparmi di situazioni che non conosco bene. Sì, la gestione dei Benedettini, vista l’utilizzazione che giustamente se ne fa, aperta a tutto il territorio, dovrebbe vedere l’intervento di Regione, EE. LL., Soprintendenza… ma evidentemente è chiedere troppo, o troppo poco».
«Il problema della convivenza con Lingue a volte diventa un po’ “parenti-serpenti” e ciò è molto fastidioso…», ha affermato il preside di Lettere Iachello. Lei come ha vissuto questa convivenza da preside, concorda con Iachello?
«Abbiamo ben altri problemi che questo. Dico solo che ai primi tempi delle presidenze mia e del prof. Mineo proposi l’istituzione di un Coordinamento costituito dai due Presidi e dai Direttori di Dipartimento, proprio per creare le migliori condizioni possibili per la convivenza. Fu istituita anche una Commissione per elaborare Statuto e Regolamento nuovi della Biblioteca. Dopo primi positivi risultati, si ritenne, non da parte nostra, di porre fine all’esperienza. In seguito, ogni volta che si è ritenuto di collaborare si sono registrati esiti positivi. Certo, ha influito in negativo una concezione, errata sotto tutti i punti di vista, secondo la quale ai Benedettini c’erano un padrone di casa e un inquilino. È bene superare prevenzioni e sospetti e collaborare fattivamente. Lo chiedono i tempi e il buon senso».
La professoressa Ilde Rizzo, che abbiamo recentemente intervistato, pensa che spesso gli studenti non sappiano fare il loro mestiere e pretendere qualità e ha detto che li vorrebbe più critici. Lei è d’accordo? E cosa farebbe se oggi fosse al loro posto?
«Ritengo che Ilde Rizzo abbia ragione. Da tempo vedo passività e distanza da parte degli studenti nei confronti di un’Istituzione che è la loro. Le cause sono molteplici e le responsabilità sono di certo anche d’un corpo docente che, con le dovute eccezioni, non sa o non riesce a coinvolgere. Non mancano ovviamente segni opposti: in varie esperienze – Step1, Radio Zammù, i Laboratori, ecc. – si è manifestata una notevole e attiva partecipazione studentesca. Al loro posto che farei? Studierei e mi impegnerei senza tregua contro i progetti delle classi dirigenti che stanno affossando l’Università pubblica. Un’altra Università è possibile, forse».
Parigi, 23 febbraio 2010
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