Una vita in esilio tra bombe, proiettili e kamikaze L’incontro con il fotoreporter Manoocher Deghati

Una vita passata tra bombe, proiettili, gang e kamikaze. Pluripremiato fotoreporter in esilio, vincitore per ben due volte del World Press Photo, Manoocher Deghati ha tenuto ieri l’ultima Public Lecture della mostra internazionale WPP che, per il secondo anno consecutivo, è stata ospitata a Palazzo Bonocore di Palermo. Direttore fotografico dell’Agence France-Presse, di Associated Press, dell’unità fotografica Nazioni Unite e dell’AINA (l’istituto di fotogiornalismo afgano), Deghati ha immortalato con i suoi scatti i soggetti più disparati: dai presidenti ai ragazzini di strada, politici, militari, trafficanti e prostitute. Nel corso della lecture, il fotoreporter iraniano ha mostrato al pubblico palermitano i suoi scatti, riesumando luoghi intrisi di storie e ricordi.

«Questo è Kabul dopo l’attacco talebano. Ero arrivato proprio qualche giorno dopo l’invasione, le case erano distrutte. Questa ragazza si chiama Juma, e ha perso il braccio durante un bombardamento americano. La foto ha fatto il giro del web, Juma Gol adesso ha una protesi al braccio e vive in America». Libano, Honduras, Kuwait, Bosnia, Somalia, Palestina, Israele, Marocco. E ancora Beirhut, Sudan, Kenia, Al Cairo, Panama. Diversi e numerosi, i conflitti vissuti e documentati dal fotoreporter iraniano nel corso della sua quarantennale carriera. «La speranza è che le nostre foto abbiano una risonanza e cambino le cose, come per Juma»

Un personaggio scomodo, con la macchina fotografica sempre in spalla, pronto a raccontare l’orrore attraverso l’obiettivo. Ferito per ben due volte a Ramallah, durante il conflitto israelo-palestinese, Manoocher Deghati non si è mai fatto intimorire e ha continuato a immortalare la realtà, dura e cruda. «In quella circostanza sapevo che il proiettile poteva arrivare a me – racconta a MeridioNews – avevo come un presentimento. A parte il dolore fisico, questi episodi non mi hanno mai scoraggiato, anzi mi hanno dato ancora più forza! Il mio lavoro è importante e se mi volevano eliminare era perché lo stavo facendo bene».

Manoocher Deghati ha viaggiato in 150 paesi diversi, informando attraverso le immagini il pubblico internazionale a dispetto delle distanze geografiche e culturali. «Portavo con me due valigie. Pesavano entrambe tantissimo, dentro c’erano circa 100 chili di materiale: macchine fotografiche, obiettivi, flash, l’ingranditore, il tank per sviluppare i filtri, sacchi di polvere da fissaggio, una macchina da scrivere per le didascalie. Poi, quando arrivavo nel luogo, mi toccava cercare un bagno in cui allestire la camera oscura». Aneddoti e ricordi riemergono insieme alle immagini, che il fotoreporter iraniano fa scorrere sullo schermo. «Nel 2011 sono andato a vivere Al Cairo, volevo un po’ di tranquillità – racconta – A 36 ore dal mio arrivo sono iniziate le manifestazioni contro Mubarak. La foto l’ho scattata dalla finestra del mio ufficio, ricordo ancora a terra i cadaveri e sul muro quel murales con scritto peace».

«In ogni foto che vi mostro c’è qualcosa di speciale – continua Manoocher rivolgendosi al pubblico in sala che numeroso ascolta la Lecture con interesse – ognuna ha la sua storia ed ogni volta che la vedo rivivo quei momenti, forti. Uno degli scatti a cui sono più affezionato è questo». Sullo schermo, tra il nero dei chador, si scorgono i volti di alcune donne. Scattata a Teheran, nella prigione di Evin, la foto risale al febbraio dell’82 quando, in occasione del terzo anniversario dell’avvento della Repubblica islamica,venne permesso ai giornalisti di accedere alla prigione per vedere gli oppositori del regime. «Ogni volta che la guardo penso al destino di queste povere ragazze – spiega il fotoreporter iraniano – la legge islamica vieta l’uccisione di una vergine e i miliziani, per aggirare il divieto, prima di giustiziarle le violentano».

Tra gli scatti di Manoocher non solo guerre e conflitti, anche episodi di cronaca politica, moda e disastri ambientali. «La natura umana è una cosa incredibile – osserva mentre spiega uno degli scatti realizzati in Somalia – questi ragazzi hanno perso la loro casa sott’acqua a causa delle inondazioni ma stanno esultando perché adesso hanno una piscina gratuita». Dopo una vita in viaggio, passata a documentare, Deghati ha deciso di fermarsi in Puglia insieme alla moglie Ursula e la figlia Clara. «Sentivo che stava diventando tutto banale, la guerra era ormai la normalità. Non volevo perdere la sensibilità». Il suo più grande desiderio, però, riguarda la terra che gli ha dato i natali «Voglio tornare in Iran – dice commosso – ­­fotografare nel mio paese, ma adesso non posso».

Per la mostra internazionale di fotografia World Press Photo oggi, dalle 18, la serata conclusiva con la proiezione di tutte le foto vincitrici del premio dal 1955 ad oggi. Le foto viaggeranno poi verso Torino, dove rimarranno fino all’11 novembre, presso la Ex Borsa Valori.


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