Una “Locandiera” un po’ troppo “stomacata”

Titolo: La Locandiera. Autore: Carlo Goldoni. Adattamento e Regia:  Giancarlo Cobelli. Scene: Alessandro Ciammarughi. Luci: Robert John Resteghini. Interpreti: Mascia Musy, Francesco Biscione, Paolo Musio, Massimo Cimaglia, Andrea Benedet. Produzione: Compagnia del Teatro Moderno – Europa Duemila – Teatro Stabile del Veneto “Carlo Goldoni”.

Il regista Giancarlo Cobelli, il 22 aprile del 1979, in occasione dell’inaugurazione del Teatro Goldoni di Venezia, allestì una celebre edizione de ‘La locandiera’, con Carla Gravina protagonista ed ottenne un tale successo che la commedia fu rappresentata per ben tre stagioni di seguito. Quello spettacolo passò alla storia poiché decretò una svolta nella direzione artistica dell’opera goldoniana. Ne venne fuori una Mirandolina non troppo raffinata, non come era stata quella presentata da Morelli e Visconti, bensì un personaggio dalla forte componente erotica, dura ma elegante al tempo stesso.
A distanza di parecchi anni il suo regista sceglie Mascia Musy, per interpretare l’incarnazione di una intraprendente signora d’affari, conforme a tutte quelle donne che, dopo la storica Rivoluzione, cercarono di migliorare il loro status sociale, più autonome ed industriose.

All’interno della locanda si focalizza la prospettiva di possibili incontri, occasioni di affari, conversazioni ma anche scaramucce amorose e scontri verbali. Protagonisti di questo sfondo quasi affascinante sono tre prototipi di uomini: il marchese di Forlipopoli (Paolo Musio), il conte di Albafiorita (Massimo Cimaglia) ed il cavaliere di Ripafratta (Francesco Piscione). Tuttavia le loro pretese saranno rese sciocche davanti alla forza seduttrice della locandiera, con raggiri ed inganni, mascherati ora da calcolate lacrime ora da svenimenti e civetterie femminili. Mirandolina fa breccia nel cuore dei tre malcapitati, più uno, il cameriere, Fabrizio, che da anni è al servizio della sua padrona. È lui che alla fine la spunterà, poiché verrà scelto come suo imminente marito, a patto che lui la assecondi nelle sue intraprendenze.

Il genio del regista in questa messinscena si è particolarmente incentrato sulla recitazione, alla ricerca di ritmi “umani”, in verità in stridente contrasto con quelli vertiginosi che ci vengono imposti nella tamtam quotidiano. Ecco dunque come ‘La locandiera’ risulti essere una delle più lunghe rappresentazioni teatrali nell’ambito della commedia italiana.

I tre atti in cui l’opera è divisa lasciano molto spazio alle lente digressioni di quasi tutti i personaggi. Così ogni battuta risulta soppesata e calibrata in ogni suo dettaglio. Inoltre, la lentezza di dialoghi e monologhi rende possibile un piano particolare in cui i gli attori tutti diventano protagonisti, ritagliandosi un ruolo di primaria importanza nell’opera. Tutto ciò tuttavia a discapito dell’attenzione del pubblico, che a volte si perde un po’ fra i soliloqui del marchese di Forlipopoli e le smancerie della proprietaria della locanda.

Buona l’organizzazione per il cambiamento degli scenari sul palcoscenico. Gli sfondi e le vedute scivolano via quasi impercettibilmente, con la magia della neve sullo sfondo del palco e il fragore dei lampi in una scena impreziosita anche dai costumi ottocenteschi. Mentre un punto a sfavore va all’audio impercettibile, che di certo ha contribuito alla disattenzione generale. Questo, insieme all’eccessiva oscurità delle scene, alla durata interminabile e ad un ritmo atono sono stati gli ingredienti del “capo d’opera”… dal colpo di sonno assicurato!


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