Un interprete dai mille volti, un’unica straordinaria identità

Un uomo, differenti personaggi, e mille attori tutti in uno. Per dirla alla maniera pirandelliana “uno, nessuno e centomila”. La nostra intervista è stata un’esperienza piacevolmente “teatralizzante”, mille voci in una sola voce con quel suo inconfondibile e conturbante timbro vocale. Una voce che quando parla di sé a volte lo fa in prima persona e altre volte in terza. Uno spirito sorprendentemente giovane, forte e spontaneo. Si vede subito la disponibilità, la cordialità, l’umanità vera di un attore vero, lontano anni luce da quelli che lui definisce “falsi divi di oggi” attraverso una interessante riflessione e una dura critica al mondo presente dell’entertainment mediatico-televisivo.
Grazie a lui è possibile sfatare il luogo comune dell’attore con le sue tipiche “crisi d’identità”: Pippo Pattavina, icona del teatro siciliano e catanese in particolare, grandioso nella diversità delle interpretazioni dei suoi personaggi, dimostra, a distanza di parecchi anni dal suo esordio, di avere ormai una identità ed una storia professionale ammirevole e visibilmente ben consolidata.
Quasi come se stesse a momenti esprimendo in modo sincero i suoi pensieri attraverso un soliloquio teatrale, questo è quanto ci ha confessato.

Secondo lei, il rapporto tra il teatro ed i giovani è cambiato oggi rispetto al passato, e se si, in che modo, quali sono le cause?
Io debbo dire che trovo questo tipo di rapporto incrementato, perché con lo Stabile di Catania noi ci troviamo a fare delle rappresentazioni con un numero notevolissimo di giovani, la qual cosa ci riempie di grande soddisfazione. Devo dire che c’è un certo interesse, e poi i giovani bisogna tenerseli cari, in quanto rappresentano il pubblico di domani.

Crede comunque che sia utile fare qualcosa per incentivare, migliorare e consolidare il rapporto tra questa istituzione culturale ed i giovani?
Forse i teatri dovrebbero fare, e comunque già la fanno, una politica di prezzi ancora più equa, perché purtroppo il teatro è una cosa che costa molto cara. Naturalmente dietro una rappresentazione teatrale c’è uno sforzo finanziario notevolissimo: due mesi di prove, fogli paghe di attori, costumi, scenografie, luci. Ci sono fior di milioni che devono essere ammortizzati, ecco perché i prezzi purtroppo lievitano. Però devo dire che i giovani frequentano abbastanza massicciamente il teatro e questa è una cosa notevolmente positiva. Certo, hanno bisogno di trovare il prodotto giusto, ma questo non soltanto i giovani, un po’ tutta l’utenza teatrale, perché la gente si affeziona al teatro quando i teatranti li danno il prodotto giusto.

Lei pensa che il cinema e la tv hanno prevalso sul teatro e hanno intralciato la sua crescita in modo da svalutarlo o renderlo una scelta elitaria per pochi?
Purtroppo sì. Ma non tanto il cinema quanto la tv. La tv ha dato il colpo di grazia nel senso che ha costretto le persone a starsene a casa, con mille programmazioni di film, con Sky, altre cose per cui hanno una scelta incredibile di filmografia, con quei programmi spazzatura che sono indegni – lo dice quasi con rabbia -, tipo i reality come il Grande Fratello -, creando dei falsi divi, delle figure che sono la negazione totale per quello che riguarda proprio l’arte attorale. E questi attori per cui le ragazzine impazziscono – fa un piccolo guaito e si mette le mani fra i capelli imitando le ragazze di oggi! -, questi belli, palestrati, con i capelli imbrillantinati, queste nullità totali, a cui fanno fare teatro si rivelano presto delle chimere perché durano due mesi e muoiono in quanto non hanno storia, non hanno background, non hanno niente. Questa è purtroppo una grande realtà negativa e bisognerebbe fare di tutto per non fare lavorare questa gente, per farli tornare dove erano, per farli fare un mestiere. Il teatro è una cosa seria, non si può giocare con il teatro, e infatti non durano niente. Quelli che sono gli attori veri continuano a lavorare per una vita, perché hanno dietro le spalle una storia che quelli non hanno. Questo è il lato negativo di questo mestiere, lato negativo anche da parte del pubblico che certe volte non riconosce quali sono i valori giusti.

Quindi è anche un cambiamento di tipo generazionale e culturale?
Certo, indubbiamente.

Nella sua esperienza professionale di attore c’è un ricordo bello, uno brutto, un momento di gioia o di scoramento particolare che ricorda?
Ma ne ho tantissimi! – sorride – Eh si, scoramenti e grandi gioie. Scoramenti non so, quando non sono riuscito ad indovinare un personaggio, quando il personaggio annaspa, quando io non sono stato bravo nella realizzazione, perché questo è un mestiere terribile, in questo mestiere non ci si nasconde, come possono nascondersi gli impiegati o un altro tipo di professionista, qua c’è l’apparizione! Il risultato è immediato e il pubblico lo capisce immediatamente che quell’attore ha fallito o no, e l’attore lo capisce perfettamente. Da questo punto di vista sono lacrime e dolori. Allo stesso modo, c’è il grande entusiasmo quando tu riesci a indovinare un personaggio come nel caso specifico del lavoro che sto interpretando in questo momento, “La concessione del telefono” di Andrea Camilleri, dove io interpreto ben sette personaggi completamente diversi l’uno dall’altro…

Infatti, come ci si sente a interpretare molteplici ruoli tutti contemporaneamente?
Benissimo, benissimo, benissimo! – dichiara con sguardo estasiato e soddisfatto – Ecco, qua entriamo nel gioco della soddisfazione del risultato positivo, perché interpretando ben sette personaggi, credo che quello che io trasmetto al pubblico sia positivo, nel senso che uno non ha niente a che vedere con l’altro, sono sette tipologie completamente diverse. Questo è il valore della trasformazione, perché se io devo fare sette personaggi, parlando sempre così, vestendo sempre alla stessa maniera, o gesticolando e camminando sempre alla stessa maniera, Pattavina si poteva risparmiare e potevano scritturare sette attori inutili che fanno sempre lo stesso personaggio! Io invece rappresento sette attori diversi, per cui la gente stenta addirittura a riconoscermi ed ecco allora il valore del cambiamento, del trasformismo in positivo. Dopo mi riconosce, perché chiaramente il primo personaggio lo dichiaro visto che mi trucco in scena, mi levo la parrucca di La Ferlita e indosso quella del medico Zingarella… per cui dopo la gente capisce e scopre che è lui che fa il gioco, ma debbo dire che devono stare parecchio attenti.

C’è qualche suo/a collega che ammira particolarmente, con cui ha o ha avuto un feeling particolare a livello professionale?
Io ne ammiro tantissimi, davvero tanti.

Ma c’è qualcuno che lei considera come un maestro?
Questa è una domanda che mi rivolgono sempre: c’è un maestro, un modello a cui lei si è ispirato? Io non mi sono ispirato a nessuno. L’attore non si deve ispirare, deve apprendere. perché se un attore si ispira a certi modelli fatalmente tende a fare l’imitazione di quel modello con tutto il rispetto e la stima. Se io dicessi che il mio modello è Vittorio Gassman, e mi ispiro a lui, allora reciterei come lui: “Nel mezzo del cammino di nostra vita…” – imita magistralmente Gassman che recita la Divina Commedia – allora sarei un imitatore. Adesso Pippo Pattavina imita Gassman! Questo non mi interessa, io debbo indovinare e sbagliare per conto mio. Però ci sono tanti che ho ammirato e continuo ad ammirare in maniera sperticata: Gassman, Albertazzi, il grandissimo Turi Ferro, Giancarlo Giannini, Tino Buazzelli, il grandissimo, meraviglioso, immenso, incommensurabile Salvo Randone il più grande di tutti in assoluto, ma non mi rifaccio a loro. Si, per me questi sono stati maestri, come per voi può esserlo un professore che insegna una determinata dottrina, nel senso che ho detto: perbacco, come recita bene! Perbacco, come dicono quelle battute! Perbacco, che presenza! Ma non li emulo, non li imito assolutamente. Io sono io, nel giusto o nello sbaglio, nell’essere bravo o nell’essere un cane maledetto. Guai se imitassi! Un attore non deve mai imitare, mai!

Che consiglio darebbe ai giovani siciliani che vorrebbero intraprendere, anche se al giorno d’oggi forse è difficile, questa carriera?
– Ride – E’ un mestiere difficile, molto, molto, molto…portato all’ennesima potenza difficile. Un mestiere terribilmente difficile. Bisogna essere molto bravi, molto fortunati soprattutto, sapersi vendere, saper creare le relazioni sociali, mille cose. Un attore per potere lavorare deve avere mille cose. Forse la bravura è la cosa ultima, che è importantissima, ma deve sapersi relazionare, deve sapere giocare col telefono, deve andare alle prime: “ah caro stasera andiamo a cena…”. Questo essere sempre presente. L’attore non deve vivere da impiegato, l’attore deve essere, anche se gli “scoccia”, sempre presente, perché la presenza dice “ah guarda Pippo, ecco mentre ci sei, guarda che occasione, ti propongo una cosa…”. Perché possibilmente non ci pensano se tu non ti relazioni continuamente. Quindi: grande fortuna, sapere recitare e sapersi relazionare ed entrare in certi giri perché il teatro purtroppo è fatto di giri, di circuiti, di clan. Un regista ha il suo clan e ogni volta che viene scritturato porta il suo scenografo, il suo costumista e Pattavina “no, ma io lavoro bene con…” e il teatro dice “ma noi abbiamo tizio …”, “ma io lavoro bene con lui da anni, altrimenti non vengo…” “va bene allora scritturiamo Pattavina…però noi vogliamo questi due attori…”. Ecco i clan, per cui entrarvi è molto difficile.

Infine come definirebbe il suo mestiere?
E’ un mestiere straordinario, perché ti rinnova completamente, non ti fa annoiare mai, perché ogni sera è una sera diversa. Anche se tu reciti sempre lo stesso ruolo per un mese o due mesi, il pubblico cambia, per cui tu stai recitando per delle persone che tu incontri per la prima volta e che loro ti incontrano per la prima volta. C’è questa sensazione meravigliosa. Questo è un mestiere che da questo punto di vista ti mantiene giovane, non ti fa invecchiare mai.

Valeria Arlotta

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