Un fantasma buono

Il 13 settembre scorso è morto il semiologo e filosofo Tommaso Russo. Aveva quasi 37 anni, gli ultimi dei quali spesi lottando contro un tumore che non gli ha mai sottratto, fino agli ultimi istanti, un’oncia del suo coraggio e della sua lucidità. Lascia una moglie, un bambino di nove anni e una bimba di cinque.

Alla sua morte, i due maggiori giornali italiani sono stati inondati di necrologi, e hanno segnalato la scomparsa nelle pagine di cultura. E questo è dovuto anche – in parte – alla notorietà, in quell’ambiente, di suo padre, sua madre e del secondo marito di lei. Ma lui non ne parlava mai; chi veniva a saperlo, lo sapeva da terze persone. E la sua notorietà vera in campo accademico se l’era conquistata sul campo. Non tanto e non solo con le sue pubblicazioni – la malattia lo aveva colto, infatti, proprio nel momento che, per un giovane studioso, dovrebbe essere quello della prima “esplosione” intellettuale e scrittoria – ma soprattutto attraverso le relazioni che intratteneva con tanti colleghi italiani e stranieri. E la volontà di dialogo, in lui, si univa alla capacità, a tratti impressionante, di dire qualcosa di importante e di inaspettato su qualsiasi argomento, anche lontanissimo dai suoi interessi specialistici. In un ambito in cui la divisione per scuole coincide spesso con una divisione degli orizzonti, Tommaso sapeva scavalcare ogni steccato disciplinare e (il che è molto più difficile) “parrocchiale” con una semplicità impressionante.  Nonostante l’ostacolo della malattia, era comunque riuscito a scrivere due monografie molto importanti sulle lingue dei segni: La mappa poggiata sull’isola e Le lingue dei segni. Storia e semiotica (con V. Volterra). Ma soprattutto, lavorando fino all’ultimo, era riuscito a completare – a parte l’ultima revisione – L’ombra illuminata, un libro sulla natura dell’ironia che, non appena pubblicato, diventerà un’opera imprescindibile per chiunque voglia interessarsi a questo argomento.

Io lo conoscevo da almeno una dozzina d’anni – da quando entrambi studiavamo a Roma, con gli stessi maestri (che già allora erano per lui qualcosa di diverso che “i suoi professori”). Negli ultimi anni, poi, avevamo fatto alcuni progetti (realizzati solo in minima parte) di lavori da fare insieme, accomunati dall’idea che lo studio – anche filologico – dei due padri fondatori della scienza dei segni, Peirce e Saussure, fosse un modo irrinunciabile per attingere al pieno valore filosofico degli studi di semiotica. Per questo, le poche volte che avevamo occasione di discutere – una, memorabile, fu proprio a Ibla – facevamo quasi delle gare a chi era più bravo a dire quello che l’altro pensava (c’è bisogno di dire che quelle gare le vinceva sempre lui?). Dapprima consideravo questo fatto come una sorta di elezione. Ma poi ho iniziato a sospettare che lui fosse fatto per trovarsi a meraviglia con chiunque fosse interessato al tema del linguaggio, sotto qualsiasi angolatura e competenza specifica. Per questo chi come me, Marco Mazzone, Sabina Fontana e tanti altri, ha avuto la fortuna di essergli amico non può che rimpiangerlo con una sorta di rancore – come se, morendo, ci avesse tolto qualche cosa su cui contavamo.

Alcuni amano pensare che le persone care, anche dopo che se ne sono andate, continuino a seguirli, in forma di angeli. Ma Tommaso non era credente, e dunque – non foss’altro che per coerenza – non potrebbe mai diventare un angelo. Io me lo vorrei immaginare piuttosto come un fantasma (una certa apparenza eterea, del resto, già l’aveva quando era in vita) che viene talvolta a visitare gli amici, annunciato da uno strano suono metallico, che però non è di catene, ma degli ingranaggi del cervello, perennemente in movimento (e mai a vuoto). E quello strano suono mi sembra di averlo già sentito, in questi giorni. Sarà un’impressione?

Emanuele Fadda

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