Il giovane regista catanese Marco Pirrello entra per l’ultima volta nei luoghi di un tempo tanto lontano quanto vivo nei cassetti della memoria. Consapevole che quel viaggio potrebbe non ripetersi più, sceglie di raccontare il momento senza dire neanche una parola
Un corto racconta l’infanzia negli anni Novanta A Gravina girata L’ultima notte a casa dei nonni
Un saluto nostalgico all’infanzia degli anni Novanta. L’ultima notte del catanese Marco Pirrello, cortometraggio girato a Gravina di Catania nella casa di campagna dei nonni, appartiene a chiunque sia nato negli anni Ottanta. Nove minuti di silenzi, immagini e suoni che immortalano ricordi di un’epoca, più che un periodo. Accolto con entusiasmo al Militello Indipendent Film Fest, viene escluso dal contest etneo Corti in cortile per l’«ambiziosa» durata dei silenzi. «L’ho girato per soddisfare l’esigenza personale di fissare per sempre i momenti della mia infanzia vissuti dai nonni. Per questo per me è stato comunque un successo», afferma Marco Pirrello a MeridioNews.
Una laurea in Scienze della Comunicazione conseguita a Catania e poi una vita lavorativa costantemente impegnata come regista freelance, facendo spola tra la sua terra e Roma. Nel 2019 il filmaker catanese si ferma e si volta a guardare indietro nel tempo. E lo fa attraverso i luoghi, udendo e vedendo ciò che qualunque bambino cresciuto negli anni Novanta ricorda ancora: il calciobalilla, una chitarra scordata, i fumetti di Topolino, le sigle di trasmissioni per bambini (Solletico, Che fine ha fatto Carmen Sandiego?), i gol di Roberto Baggio commentati da Bruno Pizzul nel 1994, il secondo posto due anni dopo di Elio e le storie tese a Sanremo. E, ancora, le voci dei bambini che giocano in cortile, quelle più adulte dei pranzi di famiglia.
«La casa di campagna dei miei nonni era in vendita e io ho voluto entrarci per l’ultima notte, per immortalare tutto ciò che vi era successo» spiega Pirrello, classe 1985, metaforicamente entrato nella dimora della infanzia di molti suoi coetanei. Ciò attraverso la riproduzione di suoni, abitudini e forme di aggregazione, alcuni ormai perduti. «Il soggetto è tutto notturno e silenzioso, per cui il suono e le immagini costituiscono dimensioni fondamentali. Non essendoci i dialoghi non potevano essere tralasciati», precisa.
Un amarcord intenso e concentrato, che ha per protagonista l’attore ragusano Giovanni Arezzo, la cui poesia non priva il cortometraggio di lucida memoria storica, tanto da volare fino al Sunday Shorts Film di Londra e Lisbona. «Altri festival come il catanese Corti in cortile non hanno selezionato il mio cortometraggio oppure, pur complimentandosi lo hanno ritenuto più adatto a una sezione sperimentale», racconta il regista, alludendo soprattutto alla preoccupazione talvolta destata dalla totale assenza di dialoghi. Una scelta non nuova, in realtà, nel mondo dei corti cinematografici, contenutisticamente compensata da voci, rumori, contrasti di luce che riempiono sempre la scena.
«Nel cortometraggio nulla è casuale – puntualizza il regista – tutte le stanze erano al buio e sono state illuminate appositamente in modo studiato dal direttore della fotografia Carlo Sisalli, che è un grande professionista». Protagonista nel 2016 sul set di Liberami, documentario sugli esorcismi girato a Palermo e premiato al festival di Venezia.
La tenerezza che permea il cortometraggio non lascia trasparire rimpianti. Il finale, infatti, mette a confronto presente e passato. E, attraverso l’uso del telefono, li lega per sempre attraverso il sottile filo della memoria.