Pubblichiamo una riflessione a proposito degli episodi di razzismo delle ultime settimane scritta da Mariangela Di Gangi, presidente del Laboratorio Zen Insieme, operatrice sociale e dirigente di Sinistra Comune
Uguaglianza sociale unica risposta al razzismo Dallo Zen di Palermo la riflessione contro l’odio
Che si tratti di pallottole come a Trani o a Napoli, di uova come a Moncalieri, di calci e pugni come a Partinico o di odiosi insulti mentre giri tranquillo/a per le strade della tua città o sui social, ci sono persone in Italia e nel 2018 che escono di casa e non sono al sicuro, né certe che possano fare qualcosa per starci al sicuro, perché la ragione di queste aggressioni, verbali e fisiche, sfugge alla logica e risiede nello sdoganamento crescente dell’odio verso il diverso.
Inaccettabile e da contrastare con tutte le modalità che riusciremo ad inventarci, l’unica vera soluzione per arginare la violenza e l’odio dilaganti passa per il ricominciare a mettere al centro dell’agenda politica le diseguaglianze sociali tutte, in un discorso unico di rivendicazioni per gli ultimi di questa società, sempre più ingiusta e meno coesa, che dobbiamo essere certi di non stare contribuendo a frammentare sempre più.
Ogni giorno, infatti, leggiamo di definizioni, soluzioni e categorie, che servono ad assolvere o ad accusare, a turno, l’una o l’altra parte di un conflitto, che però non pare poggiare su due parti nettamente distinte e contrapposte. Non ci sono completamente buoni e completamente cattivi, eppure certamente ci sono vittime.
È qualcosa di molto composito e che affonda le radici in dinamiche altrettanto profonde, tali da renderlo spaventoso anche per i più ottimisti, perché sappiamo che per recidere le radici di tanto odio occorreranno tanto, tanto tempo e lavoro. È spaventoso, quindi, perché basta rifletterci un po’ e ci si rende subito conto che quello che si manifesta così violentemente oggi, trova cause e responsabilità in atteggiamenti e comportamenti molto più vecchi e in decenni di assenza di un tentativo autentico di provare a rendere patrimonio collettivo quelle che sono state narrazioni, molto più spesso che pratiche, ahinoi, antirazziste e antifasciste.
E le parole chiave delle tutele dei diritti di tutti e tutte rischiano di svuotarsi se declinate molto più spesso in dibattiti che in prassi, come per troppo tempo è accaduto, diventando una sorta di appannaggio di pochi, degli illuminati che sanno di stare dalla parte giusta, senza considerare che, quando questi valori non sono patrimonio collettivo vero, anche di quella parte di popolazione meno avvezza alla lettura di Gramsci o Don Milani – così come anche dei semplici giornali – e quindi meno predisposta a incardinare il loro agire su quelli che dovrebbero essere dogmi di uno stato democratico, antirazzista e antifascista, diventano un terreno che si sgretola in fretta.
Non è forse in questo modo che abbiamo cominciato a cedere terreno all’odio verso l’altro? Non è forse per la rinuncia della faticosa costruzione di spazi collettivi veri che si è rafforzato il senso del «noi e loro» e se ne è moltiplicato l’uso per stereotipi?
Ci diciamo, per fortuna sempre più spesso, che esiste il problema dello scollamento tra classe dirigente e paese reale, che la politica ha perso quei sani anticorpi che solo il confronto con le persone che ambisci a rappresentare può darti, facendo spazio alle ricette giuste a prescindere, anche per i problemi delle persone prive di mezzi e strumenti, e quindi escluse dall’elaborazione del cosa serve, maturando la presunzione che queste ricette siano giuste anche quando loro non possono capirle o quando con loro non ne parli proprio.
Quando la politica ha cominciato a parlarsi esclusivamente addosso e ad occuparsi solo di sé stessa e del proprio posizionamento, è iniziato qualcosa di cui oggi paghiamo carissimo il prezzo. Perché è lì che si è costruita una distanza, che è ormai un abisso, tra chi sta male, per le ragioni più svariate, ed è stato lasciato indietro e chi ha deliberatamente trascurato il senso di ingiustizia che opprime queste persone, facendo in modo che si tramutasse sempre più in quella rabbia che oggi trova sfogo, rappresentanza e un vero e proprio sdoganamento nei facili proclami dei leader dello sfascio ad ogni costo, in quelli che definiamo populisti e che non sono altro che la famosa risposta sbagliata ad una domanda giusta, che adesso si traduce in una drammatica guerra tra poveri.
E chissà, magari adesso, oltre a dircelo, proveremo anche a risolverlo questo problema.
Quello che non ci diciamo ancora abbastanza spesso, dunque, è che è l’altissima diseguaglianza sociale ad armare gli uni contro gli altri. È l’esclusione sociale non trattata come un tutt’uno ad alimentare le distinzioni e, quindi, i conflitti tra chi vive ai margini e non solo. Tra chi è nato in Italia e chi, invece, ci è arrivato dopo, tra chi non può permettersi una casa e chi abita in un campo rom. Manca un tessuto comune di fondo che racconti come tutti hanno un diritto che gli è stato negato e che a negarglielo non è stato sicuramente il vicino di disgrazia.
La sensazione, costruita ad arte, che i diritti siano a compartimenti stagni o che, addirittura, siano in concorrenza, come se la tutela dei diritti di alcuni escluda la tutela dei diritti di altri, trovando la sua espressione più feroce nel «prima gli italiani», la combattiamo soltanto con una narrazione da cui traspaia con chiarezza che ogni persona e ogni disagio possono trovare spazio dentro le risposte della politica.
A quelli che vogliono alimentare l’odio verso qualcuno o qualcosa, dobbiamo ricordare costantemente che con questo odio, prima o poi, faremo i conti tutti e tutte.
A quelli che invece hanno la percezione, quasi sempre vera, che la politica non si occupa anche di loro, dobbiamo il nostro massimo impegno e la nostra attenzione più alta, altrimenti saremo anche noi i non completamente buoni di questo conflitto.