Dieci anni invece dei quindici decisi in primo grado. A spingere Stefania Bologna a scagliarsi contro il genitore con dodici coltellate, nel novembre del 2015, sarebbe stato un raptus omicida, scatenato dai loro rapporti tesi e, secondo la difesa, anche dalle precarie condizioni psichiche della donna
Uccise il padre, ridotta la condanna in appello Per i giudici non ci fu nessuna premeditazione
Dieci anni anziché quindici. Questa la decisione della Corte d’Assise d’appello, che ha ridotto la condanna decisa in primo grado nei confronti della 40enne Stefania Bologna, accusata dell’omicidio del padre Francesco. A venire meno, per i giudici, è l’aggravante della premeditazione. Sarebbe stato un raptus quello che ha scatenato, nel novembre 2015, il gesto da parte della donna. L’avvocato della donna, Giampiero Santoro, infatti, ha giocato in aula la carta dell’infermità mentale, totale o parziale, avvalendosi di una consulenza medica di parte e di un diario clinico che ripercorre gli undici ricoveri della donna per problemi psichici avvenuti dal 2001 a prima del delitto.
I rapporti tra padre e figlia pare fossero tesi da tempo. A scatenare l’istinto omicida di lei potrebbero essere stato, secondo la ricostruzione fatta dai magistrati, i continui rimproveri da parte del padre per l’uso eccessivo del computer. L’uomo, forse conscio delle precarie condizioni mentali di Stefania, cercava di controllarla e proteggerla dai pericoli del web. Una limitazione, però, troppo stringente per lei, che sarebbe esplosa, fino a infierire con dodici coltellate, davanti alla madre rimasta inerme. Gli inquirenti, all’epoca, parlarono addirittura di «odio profondo nutrito nei confronti del genitore».