Trippa per gatti

L’immagine della città è compromessa. Catania ha preso il posto di Napoli come termine di paragone negativo per qualsiasi dibattito pubblico, sui giornali, alla tv.
 
I cittadini oggi vivono ore d’angoscia e di rabbia, per nulla tranquillizzati dall’arrivo dei 140 milioni di euro a fondo perduto da Roma. Vorrebbero, almeno, sapere a quanto ammonta davvero il “buco” nelle casse del Comune: c’è chi parla di debiti per 700 milioni, chi arriva, come Orazio Licandro del Pdci, a conteggiare un miliardo tondo tondo. Perché il quadro appaia finalmente completo, come giornalisti alle prime armi, i catanesi ripetono dentro di sé il mantra delle famose 5 domande: Chi? Cosa? Dove? Quando? Perché?
 
Siamo consapevoli che, se non verrà dichiarato il dissesto tecnico, l’unica speranza di conoscere la verità è affidata alle inchieste della magistratura. Ché non basta sapere, come ha accertato la Corte dei Conti, che negli anni della precedente amministrazione «si è cercato in tutti i modi possibili (entrate iscritte per un importo maggiore da quello riscosso, spese sottostimate o addirittura non contabilizzate) di far fronte a sempre maggiori esigenze e alle conseguenti spese pur in assenza di reale copertura finanziaria». Nell’attesa, però, possiamo intanto dare un piccolissimo contributo all’analisi di come tutto questo sia potuto accadere, il modus operandi che ha portato le casse del SPQC al collasso.
 
Una delle voci più difficili da quantificare, per sua stessa natura, è quella dei debiti fuori bilancio. Certo, non servono a spiegare tutto, ma la lista delle spese impreviste, allegata alla nota prot. N 155883 del 7 agosto scorso che parte dal 2005 e arriva al 30 giugno 2008 (mese in cui i dipendenti comunali già tribolavano per lo stipendio), fornisce una chiave di lettura per capire come in pochi anni l’amministrazione di un ente pubblico possa trovarsi con una pietra al collo.
 
Dietro al debito fuori bilancio c’è infatti la convinzione che le casse di un’amministrazione pubblica siano come le mammelle turgide di una vacca ragusana: da spremere all’occorrenza e senza farsi tante domande su quanto durerà. Cosa c’è in questa lista? A leggere il resoconto sommario pubblicato da Il Dito, nelle dodici pagine del documento ci sono “moltissime parcelle di avvocati per cause di lavoro – sentenze che condannano il Comune a pagare somme ai ricorrenti a vario titolo – ma anche 1 milione 250 mila euro per l’organizzazione del Prix Italia nel 2004, spese di piccola entità per l’ospitalità di delegazioni straniere (una dal New Jersey, una nigeriana, un’altra cinese)”. E ancora contributi per festeggiamenti religiosi (come i 5 mila euro per la Madonna delle Grazie a Cibali), congressi scientifici, pubblicità  (55 mila euro per inserzioni varie dovuti alla Publikompass): spese non pianificate, improvvise, bagattelle. Dalla lista saltano fuori perfino voci che poco hanno a che vedere con l’emergenza o l’imprevisto: come gli straordinari agli autisti di rappresentanza per vari anni (ma non sono descritti gli importi) e i gettoni di presenza per la Commissione edilizia comunale per il 2004 e il 2006.
 
Nelle voci relative ai servizi socio-sanitari, tra l’ “assistenza domiciliare a favore di anziani”, e il “ricovero indigenti e ricovero minori sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria” sbuca anche “la custodia e il mantenimento di gatti e cani randagi”. Leggendolo, ci è venuto alla mente Ernesto Nathan, primo cittadino di Roma dal 1907 al 1913. Vogliamo raccontare la sua storia perché il suo insegnamento sia da monito a chi in questo momento si trova davanti al bivio di cambiare davvero rotta nella gestione di questa città o far finta di niente e tirare a campare, magari svendendo qualche decina di ettari di demanio pubblico.
Appena eletto sindaco Nathan esaminò il bilancio comunale e arrivato alla voce “frattaglie per gatti” non esitò a chiedere spiegazioni ai funzionari del comune. Candidamente gli interrogati raccontarono della consuetudine adottata da anni per cui una parte del denaro pubblico era devoluta sotto forma di frattaglie a una nutrita colonia di mici che difendeva dai roditori i milioni di faldoni e documenti della burocrazia cittadina. Nathan cancellò quella voce con un colpo di penna, esclamando il celebre “Non c’è trippa per gatti”.
È vero, i gatti non votano, come, in verità, non si recavano alle urne neanche i poveri ratti divorati da decenni dai famelici felini. Ma l’amministratore onesto, ne siamo certi, non avrà difficoltà a capire la morale della favola.


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