Transgender, il cammino di Alessandro «È la nostra dignità a dire chi siamo»

«Ti trovi a essere identificato come un mostro solo per ciò che sei». Alessandro ha 43 anni e nei suoi occhi si può leggere ancora un sano orrore per le traversie che si è trovato ad affrontare nella sua vita. Non c’è alcuna rassegnazione. «Ne ho viste così tante che ormai ho una scorza, ma è la nostra dignità a dire chi siamo», spiega determinato. «È da quando avevo tre anni che ho capito chi ero: di certo, non una donna». Alessandro, nato e cresciuto nel Catanese, è un transgender FtM, sta portando a compimento il percorso da un corpo femminile a maschile. Un cammino lungo e difficile, pieno di burocrazia, pregiudizi, parcelle di consulenti carissime, interventi chirurgici dolorosi. Ma anche violenze fisiche e mentali.

Durante l’adolescenza la sua disforia di genere – l’identificazione nel genere opposto a quello biologico – viene trattata come una malattia da dover curare. «Era un riorientamento sessuale – racconta – Mi dicevano che ero sbagliato. Ma così violenti solo la testa di un ragazzino». Passano altri anni, durante i quali è difficile gestire qualsiasi relazione interpersonale. «Ogni giorno mi mettevo una maschera -ricorda – Ogni volta che mi dicevano “Come sei carina” mi sentivo morire. Non riuscivano a capire perché rifiutassi qualsiasi uomo, mi facevo truccare e pettinare dalle mie amiche perché non potevo nemmeno guardarmi allo specchio». Alessandro viene salvato anche da due tentativi di suicidio. «Mi sono trovato in un letto d’ospedale a fissare il soffitto e chiedermi: perché sono ancora qui?». Le pressioni dei familiari e di chi lo circonda non cessano, tanto che Alessandro decide di sposarsi. «Era il mio migliore amico – spiega – Mi sono detto: se devo farlo, almeno che sia mio fratello. Ma l’ho portato sull’orlo della pazzia», commenta amaramente.

Qualche anno dopo avvia una relazione con una donna vittima delle violenze dell’ex marito. Per sfuggire alla sua influenza, la coppia si trasferisce a Roma e poco dopo vengono raggiunti dalla figlia minore della compagna. «Ma quando ci siamo rivolti a un centro antiviolenza, hanno individuato in me il problema – afferma con durezza – Hanno demolito la mia figura, perché geneticamente non sono un uomo. Mi hanno guardato, mi hanno dato una pacca sulla spalla e mi hanno mandato via, consegnando la mia ex e la bambina che ho cresciuto per otto anni nelle mani di un nuovo carnefice». Una vicenda «surreale. Una di quelle che ti fa sentire in una puntata di Ai confini della realtà».

«Le soluzioni che ti danno sono solo due: prostituirti o ammazzarti»

Alessandro nel frattempo avvia il complesso iter per la transizione. Un percorso che inizia con una richiesta al tribunale e sottoposta alla decisione finale di un giudice, che potrebbe anche rigettarla o non concedere il cambio dei documenti anagrafici. Un cammino da diverse migliaia di euro. «È un business e ti sfruttano». Si parte con una mappatura genetica da circa quattromila euro – pagata grazie all’aiuto delle sorelle, «che mi amano e rispettano» – e una perizia psichiatrica obbligatoria da 1970 euro. Per le prime punture di farmaci ormonali si spendono 180 euro ai quali si aggiungono i costi per le fiale di mantenimento. «Non posso permettermi la cura più veloce, così devo prendere medicine meno potenti e meno care». Poi 140 euro per ogni visita medica, «intramoenia – specifica – perché a Catania c’è un solo medico endocrinologo che effettua queste cure». Gli interventi di chirurgia estetica oscillano tra i tremila e i cinquemila euro. Infine l’ultima operazione, quella di falloplastica, dalla durata di 18 ore e una percentuale di riuscita negli Stati Uniti (dove sono molto più frequenti) dell’80 per cento.

Spese difficili da sostenere perché a ogni colloquio di lavoro, chiesto utilizzando i dati anagrafici al femminile, segue il classico «”le faremo sapere” appena mi presento». «Sono uno chef, ho lavorato in ogni settore della ristorazione», sottolinea, ma è complicato mantenere il posto se le discriminazioni dei colleghi sono una costante nella giornata lavorativa. Così «vivo contando sulle risorse di mia madre, che è gravemente malata e ha bisogno di assistenza continua».

Durante tutta la transizione viene imposta una terapia psichiatrica, colloqui tesi a determinare che si tratti di una decisione definitiva, non a sostenere le persone affidate. «A 43 anni so chi sono – si lascia sfuggire una risata amara – E invece continuano a torturarmi con test psicologici, come se domani potessi svegliarmi pensando di non essere più un uomo». A mancare sono anche le strutture mediche specifiche di riferimento. «Sono bombardato dai farmaci, sono già stato operato per un fibroma e mi hanno asportato un’ovaia. Ho chiesto che mi togliessero anche l’altra, sarà un intervento al quale in futuro dovrò sottopormi, ma mi hanno risposto: “Perché devi fare tutto questo? Non serve”», imponendogli così un altro passaggio in sala operatoria con le controindicazioni e i tempi di recupero conseguenti. E continua: «Ho un sistema endocrino e ne sto aggiungendo un altro, l’endocrinologo che mi segue posso contattarlo solo via mail. Se dovessi avere un problema urgente, potrei morire».

Anche all’interno della comunità lgbtqi «la sensibilità nei confronti dei trans è diversa». Pure qui «non manca chi chiede: “Ma perché non resti così? Che bisogno c’è”». Alessandro, però, non cede allo sfinimento quotidiano di interrogativi lanciati come macigni. «Le soluzioni che ti danno sono solo due: prostituirti o ammazzarti. Devo per forza essere donna e impazzire? Quarant’anni di vita passati così, chi me li restituisce?».


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