Termini scaduti, evitano il carcere Il Gup: «Troppo lavoro per pochi»

Scade il termine di custodia cautelare e ad Adrano, nel catanese, 16 condannati in primo grado per associazione mafiosa tornano a piede libero. A denunciarlo pubblicamente è una lettera aperta di diverse associazioni antimafia: un appello ai parlamentari etnei affinché facciano luce sulla vicenda e chiariscano le responsabilità della scarcerazione.

«È un problema di sostenibilità dei carichi di lavoro», ammette il giudice Alfredo Gari che, a oltre un anno dalla condanna in primo grado degli imputati, non ha ancora depositato la motivazione della sentenza. Ragione per cui, scaduto il termine di custodia cautelare, alcuni di loro sono stati liberati. «Siamo sottodimensionati rispetto al numero dei magistrati – spiega – e alla mancanza di personale si aggiungono, inoltre, i ritardi per le continue emergenze. In questo caso non sono riuscito a fare in tempo – ci dice – ma depositerò tutto entro pochi giorni».

I presunti affiliati al clan degli Scalisi, intanto, sono tornati nel loro comune di residenza, Adrano, e sono obbligati a presentarsi quotidianamente in commissariato. Ma affronteranno il resto del processo – sentenza di appello ed, eventualmente, Cassazione – liberi da qualunque altra forma di detenzione cautelativa. Processo che al momento resta fermo alla sentenza di primo grado. «Fino a quando non verrà depositata la motivazione del Gup – sottolinea infatti il pubblico ministero, Pasquale Pacifico – non sarà possibile nemmeno arrivare in Corte d’Appello».

«È assurdo», dichiara Simone Luca, presidente di AddioPizzo che – assieme a diverse altre associazioni di città e provincia – ha invitato i politici locali a chiedere chiarezza sulla questione direttamente al ministro della Giustizia Nitto Palma. «È un modo per sollecitarli a farsi portavoce delle istanze della parte antimafia della popolazione – prosegue Luca – che ha bisogno anche di questi segnali».

Un processo veloce quello che ha riguardato ventidue persone, tutte arrestate nell’ambito dell’operazione Terra bruciata dell’aprile 2009. Per 15 anni, il clan Santangelo e il clan Scalisi si erano divisi, rispettivamente, il commercio di droga e il racket delle estorsioni. Poi le cose sono cambiate: al tentativo della famiglia Santangelo di appropriarsi di parte degli incassi del mercato ortofrutticolo adranese, gli Scalisi progettavano di rispondere con un’autobomba contro Alfio Santangelo, boss della cosca rivale. La Procura di Catania è però arrivata prima, dopo un’indagine coordinata dai procuratori Pasquale Pacifico e Giovannella Scaminaci e condotta mediante intercettazioni telefoniche. Ma senza denunce.

Poco più di un anno nelle aule di tribunale per lo svolgimento del rito abbreviato. È il 16 giugno 2010 quando Gari assolve tre imputati (Antonio Scalisi, Antonino e Alfredo Liotta) ed emette sentenza di condanna per altri 19. Associazione a delinquere di stampo mafioso il capo di imputazione comune, a cui vanno aggiunti quelli per singoli reati: due ipotesi di tentato omicidio, estorsione, furto e detenzione d’armi. Dalla sentenza di primo grado, la detenzione cautelativa viene sospesa per 90 giorni, il tempo necessario al giudice per depositare la motivazione. Trascorrono tre mesi ma quest’ultima tarda ad arrivare. Il 16 settembre 2010, quindi, viene nuovamente disposta la custodia cautelare per tutti gli imputati con termine ultimo un anno. Arriviamo così al 16 settembre scorso, quando – scaduti i termini di detenzione – 16 dei 19 imputati vengono scarcerati. Tre di questi, in carcere per altri reati, sono tuttora dietro le sbarre.

Tra quelli con l’obbligo di residenza ad Adrano, il più pericoloso sarebbe Francesco Coco, accusato di furto ed estorsione. Avrebbe cercato di prendere la guida della cosca prima dell’operazione della Procura etnea.

[Foto di Miradas.com.br]

Luisa Santangelo

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