L'edificio è stato il primo indirizzo dell'istituzione. «Prima di esserci il palco, era un garage. Poi ha regalato tanta nobiltà artistica alla città», ricorda l'attore Pippo Pattavina. Che lì ha mosso i primi passi. E, a distanza di molti anni, deve arrendersi allo sgombero dello storica sede. Di cui racconta l'antico fermento culturale
Teatro Stabile, chiusa la sala Musco di via Umberto Pattavina: «Finita come in Nuovo cinema paradiso»
Un’insegna rossa staccata lettera dopo lettera e un pubblico di nostalgici che sta a guardare. È questa l’ultima scena della sala Angelo Musco di Catania, la storica sede di via Umberto I dello Stabile etneo. Dopo quasi sessant’anni di spettacoli l’immobile tornerà nelle mani della famiglia proprietaria. «C’è lo sfratto esecutivo, non siamo in condizione di pagare l’affitto per cui la proprietà lo rivuole indietro», spiegano dall’ufficio stampa. Che non ha redatto alcun comunicato ufficiale perché «sarebbe stata una nota di dolore», precisano. Consapevoli che lo sgombero del teatro era un epilogo annunciato da mesi e dettato da una grave situazione debitoria dell’ente. In virtù della quale, per mesi, a farne le spese sono stati i dipendenti. In uno stato di agitazione che si è riproposto più volte nel corso del 2016. E che adesso lascia lo spazio alle polemiche e al ricordo dell’antico splendore del Musco. Di cui parla a MeridioNews Pippo Pattavina, uno degli attori che proprio lì mosse i primi passi.
«Mi sembra di assistere a quella scena del film Nuovo cinema paradiso quando la gente della città si deve arrendere alla chiusura del cinematografo», commenta l’artista. Mentre il timbro di voce da comico tradisce una certa emozione. «Non lo nascondo, c’è una grande pena nel cuore di tutti coloro che l’hanno visto trasformarsi da garage a pezzo di storia della città», aggiunge. «Io sono arrivato negli anni ’70 e il teatro c’era già da un decennio. All’epoca il primo attore era Turi Ferro, il maestro circondato dai giovani come Pino Caruso, Fioretta Mari, Leo Gullotta e Tuccio Musumeci», fa alcuni esempi. «E si respirava l’aria delle grandi aspettative», prosegue Pattavina. Che spiega come il fulcro dell’organizzazione fosse Mario Giusti.
«Era stato lui a volere fortemente il teatro e sempre lui a ricostruirlo dopo l’incendio che lo aveva distrutto», racconta l’attore. Il Musco, infatti, venne inghiottito dalle fiamme nel 1972. Un rogo che ne risparmiò solo le mura esterne. Ma l’opera – realizzata un ventennio prima dall’architetto Leonardo Patanè – venne ripristinata. E la caratteristica sala ovale dotata di 50 posti a sedere in più, portando le aspettative di pubblico su cifre tra 250 e 300 persone. «Durante i lavori tutti gli attori ci siamo spostati alla sala Verga, prima garage, poi cinema e infine teatro», sottolinea Pattavina. «Lì siamo stati fino a quando il Musco non è tornato pienamente agibile e, quando la storica sede era pronta, eravamo felicissimi di potere rientrare a casa ma anche – aggiunge – di avere a disposizione ben due sale».
Un lieto fine che oggi non si potrà ripresentare. Nonostante la stagione allo Stabile abbia «registrato moltissimi abbonati, andando oltre alle aspettative di ciascuno di noi», spiega Pattavina. Che fino al 4 dicembre è al Verga con Il piacere dell’onestà. L’opera pirandelliana che racconta i fallimenti della vita di un uomo porta Pattavina a riflettere sui motivi della rovina del Musco. «È una storia brutta e schifosa di crisi e di mancanza di soldi. Doveva intervenire la politica che – dice – quando vuole, può tutto».
Ma i politici «sono sempre gli stessi: non sentono il teatro come una cosa di loro appartenenza. Ed è sempre stato così, – racconta – anche quando girava più denaro». Con la differenza che «una volta c’erano uomini come Mario Giusti che sapevano farsi ascoltare dai politici, nel modo giusto, rimettendoli in riga». Oggi, invece, non solo non ci sarebbero personalità carismatiche ma «la politica non ha voluto dare nessuna opportunità al Musco». Che si spoglia della sua insegna rossa e torna a essere un edificio come un altro della città, «dopo averle regalato tanta nobiltà artistica». Lasciando la scena al cosiddetto senno di poi.