Sul palco i centri di igiene mentale

“I matti non hanno un cuore e se ce l’hanno è sprecato”. Inizia con questa provocazione quello spettacolo ricco di sfumature che è Cim. Centro di igiene mentale. E dalle assi scricchiolanti del teatro Metropolitan di Catania, passeggiando, saltando e perfino correndo, Simone Cristicchi ricalca le orme di tanti malati ricreando in scena padiglioni, corridoi, celle e letti sfatti a partire da una scenografia essenziale, fatta di rimandi ospedalieri che portano con sé l’odore di quello che poteva essere un manicomio: un comodino, una tv che non riesce a sintonizzarsi su nessun canale, una panchina, una sedia gialla, dei lampioni ormai muti. Sul palco, coro greco quando non platea nella platea, un gruppo ristretto di ottimi musicisti, un po’ matti anche loro, bisogna dirlo, se non altro perché abbigliati come si conviene, con la camicia che, una volta, legava e costringeva all’immobilità. Dalla voce del “cantattore”, uno ad uno, prendono vita i piccoli grandi personaggi che abitano lo spettacolo: il professore che “sa a memoria la Divina Commedia”, l’autistico che disegna solo cieli sconfinati e si sente perduto non appena esaurisce il pennarello blu, fino alla celebre Margherita che un giorno a piedi nudi scavalcò il cancello ed trovò la libertà calpestando passo passo il prato bagnato di rugiada.

Tra una canzone di repertorio ed una tratta dal nuovo album, la stessa voce, che senza lasciare spazio all’indecisione spazia dalla tenerezza all’irrequietezza, dalla violenza all’invocazione di pietà, ci racconta come nel 1980, in un magazzino del manicomio San Salvi di Volterra, siano state ri trovate delle lettere. Lettere occultate di proposito, nate dal desiderio dei matti di comunicare col mondo esterno, ma mai giunte a destinazione. Parole accurate, nate da pugni avviliti che reclamavano una dignità negata, propria di tutti gli esseri umani. Quelle lettere, alcune delle quali risalenti ai primi del ‘900, vennero semplicemente accatastate in grandi scatoloni e dimenticate. Sul palco del Metropolitan, come su ogni palco di Simone, adesso, trovano finalmente sfogo e ricevono, seppur con imperdonabile ritardo, un piccolo gesto di giustizia.

Uno spettacolo fatto di immagini, oggetti,  parole e musica. E tutto prende il suo naturale posto nel (dis)ordine delle cose, come in un puzzle ogni tassello si incastra perfettamente negli altri. Non c’è un attimo di disattenzione, non c’è tempo per abbassare la guardia: la cronaca si veste di musica con i colori della denuncia e un filo di ironia. Come quando, in scena, ci viene letta la favola del manicomio. La storia delle regole rigide, da carcere se non addirittura da campo di concentramento, mentre il sottofondo è una motivetto spensierato, un charleston che però non suscita voglia di ballare bensì è un sonoro schiaffo sulla guancia dell’indifferenza, e intanto il proiettore fa scorrere immagini di matti, di bocche sdentate, di occhi che sembrano non vedere ma che in realtà scrutano a fondo. Il nostro cantastorie ci tiene a precisare che “è solo una favola, e come nei migliori film horror, presto è tutto finto”.

Non finte ma autentiche, ce ne accorgiamo, sono le parole della poetessa Alda Merini che compare in una delle testimonianze filmate in quanto quei posti lì lei li ha visti con i suoi occhi e vissuti sulla sua pelle. Prive di qualsiasi ombra di predeterminazione sono le confessioni di alcuni ricoverati che rievocano l’esperienza dell’elettroshock confessando che, a vedere gli strumenti della tortura pronti ad accoglierli, “una certa paurella” c’era. Momenti di grande commozione e tensione emotiva si alternano ad alcuni pezzi del repertorio del musicista romano. Fa capolino “La filastrocca Morlacca” (“che con una preghiera ogni desiderio avvera”), compare “Angelo custode” innamorato della statua di Venere, unica donna della sua vita, riecheggia il sarcasmo tagliente di “Che bella gente”, l’attualità di “Laureata precaria” e di “Legato a te”, omaggio alla figura di Piergiorgio Welby e alla sua lotta per la libertà. Finchè ci viene rivelata la voglia di libertà del matto Antonio reso famoso da Sanremo, e che anche davanti a noi prende il volo, per riacquistare, ancora una volta, la sua dignità di uomo. Per poi concludere, dopo un primo, avvolgente applauso del pubblico in piedi, con un’interpretazione di “Sempre e per sempre” che non ci fa rimpiangere neanche per un attimo De Gregori, che come lui riesce a inumidirci gli occhi.

Uno spettacolo completo, pienamente godibile sia dai giovanissimi (sono parecchi i bambini, in platea) che da un pubblico più coscienzioso, una performance multisfaccettata che porta con sé i segni di un lungo lavoro. Di anni di studio e di elaborazione per raggiungere un unico scopo: regalare ad ogni spettatore la chiave per poter aprire storie di vita vera. Per entrare in una realtà nascosta per troppo tempo e che finalmente trova riscontro mediatico e lascia nella mente tante domande, qualche risposta e senza dubbio la voglia di riflettere. Ancor prima che uno show, una possibilità di redenzione offertaci dalle note e illustrata dalle le immagini. Così che, quando cala il sipario, siamo certi che non c’è spazio, non più, per l’indifferenza. Che non c’è retorica che tenga. Che la verità è dura da digerire, ma è anche l’unica follia che non tradisce mai.


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