«Per la prima volta in vita mia mi trovo al banco degli imputati. Devo ammettere di essermi sentito un delinquente ed è deprimente perché so di non avere fatto nulla di ciò per cui vengo accusato». Emilio Coveri, il presidente dell’associazione Exit-Italia è indagato per l’istigazione al suicidio di Alessandra Giordano. La 47enne di Paternò, insegnante di scuola primaria in un istituto di Misterbianco, morta il 27 marzo scorso a Forch, un paesino svizzero nel cantone di Zurigo, nella struttura Dignitas. A presentare l’esposto alle forze dell’ordine da cui è partita l’inchiesta erano stati i familiari della donna.
Durante l’udienza preliminare, che si è tenuta martedì mattina al tribunale di Catania, i legali di Coveri – Arianna Corcelli e Roberto Mordà – hanno sollevato la questione dell’incompetenza territoriale. «Abbiamo rappresentato alla giudice il fatto che per noi è competente il tribunale di Torino». Dove ha sede Exit. Su questo, la giudice si è riservata di decidere e la prossima udienza è stata fissata per il 24 marzo.
Coveri è indagato perché «determinava o rafforzava il proposito di suicidio […]. Intratteneva rapporti e conversazioni telefoniche, via sms e posta elettronica a far data dall’anno 2017 e ininterrottamente sino al 2019». I suoi legali sono convinti non solo della sua innocenza ma anche «dell’insussistenza di ogni tipo di responsabilità penale. “Determinava” o “rafforzava” sono due cose ben diverse e il fatto che stiano nello stesso capo d’imputazione è molto significativo dell’aleatorietà dell’ipotesi di accusa», sostengono.
«Ho saputo della morte di Alessandra dalla trasmissione televisiva Chi l’ha visto? (durante la puntata andata in onda la sera dell’8 maggio 2019, ndr) – spiega Coveri a MeridioNews – Anche se nel capo di imputazione si dice che i nostri contatti sono durati fino al 2019, io non la sentivo più dall’agosto del 2018. L’ultima telefonata è del 13 agosto di due anni fa. Dopo non c’è stato nient’altro: ci siamo persi, come accade spesso anche con altri soci». Messaggi dai torni neutri, tipo “Sei tornato da Londra? Ho chiamato la clinica, ho bisogno di parlarti. Quando possiamo sentirci?”, a cui saltuariamente erano seguite delle telefonate. «Quello con Alessandra non era un rapporto speciale – ci tiene a sottolineare il presidente – era come quello con altri membri dell’associazione. Non ci eravamo nemmeno mai visti di presenza». Le mail a cui si fa riferimento, invece, «sono quelle con i bollettini informativi che inviamo a tutti i soci». Una newsletter con le attività dell’associazione, le storie delle persone, le novità normative.
Durante l’interrogatorio dello scorso luglio, Coveri ha risposto a tutte le domande e ha negato l’istigazione e le sollecitazioni. «Già nella nostra prima conversazione nell’estate del 2017 – ricorda il presidente di Exit – Alessandra mi disse che, seguendo il caso di dj Fabo, era venuta a conoscenza dell’esistenza della Dignitas. Aggiunse che stava malissimo (soffriva della sindrome di Eagle, ndr) e che, per questo, voleva morire dignitosamente. Io le ho solo suggerito di fare il testamento biologico e l’ho informata del fatto che per avere accesso alla luce verde per il suicidio assistito era necessario avere attestata una malattia irreversibile». Per questo, la donna, aveva ottenuto da un ospedale di Milano un certificato che attestava la gravità della sua patologia. «È la prima volta – sottolineano i difensori – che il presidente di una associazione finisce imputato solo per avere dato a un socio delle semplici informazioni che sono reperibili da chiunque anche su internet».
Alessandra fa il testamento biologico e si iscrive alla Exit, l’associazione nata nel 1996 che oggi conta circa cinquemila soci. «Il nostro scopo è stato prima quello di alimentare il dibattito sull’eutanasia che, allora, era totalmente inesistente. Poi – racconta Coveri – di potere avere legalizzate le nostre volontà sulla fine dell’esistenza con il testamento biologico (entrato in vigore con la legge del 31 gennaio 2018, ndr). È una questione di autodeterminazione, di libera scelta, di libero arbitrio. Semplicemente – prosegue – è giusto che ogni persona abbia il diritto di decidere sulla propria vita. Comunque finirà questo processo, una cosa è certa: dall’indomani, per compassione, come atto di amore e di onestà se qualcuno mi chiederà di accompagnarlo a finire i suoi giorni dignitosamente lo farò – conclude Coveri – nei limiti di quanto consentito dalla Corte costituzionale».
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