Rideterminati dalla terza sezione della Corte d'appello di Catania gli anni di carcere inflitti a Mohammed Alì Malek e Makmud Bikhit. Il primo, accusato di essere il comandante del peschereccio, verrà scarcerato nel 2026. Mentre il suo aiuto mozzo a bordo ha una detenzione ormai agli sgoccioli
Strage Mediterraneo, si chiude vicenda giudiziaria Calano condanne in appello, 700 i morti nel 2015
Doveva essere uno dei tanti viaggi della speranza, ma si è trasformato nella più grande strage di migranti nelle acque del mare Mediterraneo, almeno negli ultimi secoli. La notte del 18 aprile 2015 resterà una data indelebile nella storia dell’esodo di massa dall’Africa. Un’emergenza diventata fenomeno quotidiano in cui si è perso il numero delle vittime inghiottite dalle onde. I superstiti della traversata di due anni fa restano 28, tra cui Mohammed Alì Malek e Makmud Bikhit. Il primo tunisino, l’altro siriano. Accusati di essere lo scafista e il suo aiutante nel viaggio partito dalla costa libica, nei pressi della cittadina marinara di Zuara, poi conclusosi in tragedia dopo una navigazione di un centinaio di chilometri. La vicenda ancora oggi lascia alcuni interrogativi aperti ma dal punto di vista giudiziario è definitivamente conclusa, con l’esito del processo di secondo grado, svolto con il rito abbreviato. La terza sezione della corte d’Appello, presieduta dalla giudice Carmela La Rosa, ha deciso di rideterminare le condanne grazie a un accordo tra accusa e difese. Alì Malek dovrà scontare 12 anni di carcere mentre il suo complice tre anni e tre mesi. A conti fatti il primo tornerà in libertà tra nove anni, da tre è detenuto dopo l’arrivo nel porto di Catania e l’immediato fermo, mentre il secondo ha le ore contante dietro le sbarre. Nel processo di primo grado avevano preso rispettivamente 18 e 5 anni.
Tra i punti più controversi della vicenda c’è il ruolo della King Jacob, la nave cargo battente bandiera portoghese arrivata quella notte nel mare del Canale di Sicilia per prestare i soccorsi al peschereccio. Un’imbarcazione in legno su tre livelli, lunga 23 metri, di fabbricazione eritrea, che si trovava in grosse difficoltà e dalla quale erano partite le richieste d’aiuto. Telefonate, pubblicate in esclusiva da MeridioNews, depositate tra le prove del processo. In quegli audio c’è una sola certezza: la difficoltà di comunicazione tra chi utilizzava il dispositivo satellitare e la centrale operativa della guardia costiera di Roma. Da un lato un inglese parlato a stento, dall’altro le scarse conoscenze della lingua araba con cui i migranti provavano a dare le coordinate. L’impatto decisivo si verifica durante le manovre di avvicinamento tra il peschereccio e la porta container. Una collisione che provoca il ribaltamento del natante in legno e la caduta in mare di centinaia di migranti.
L’accusa, con l’inchiesta curata dai pubblici ministeri Rocco Liguori e Andrea Bonomo durante il mandato del procuratore capo Giovanni Salvi, ha sempre indicato come il responsabile il comandante Alì Malek mentre per la sua difesa, l’uomo è assistito dall’avvocato Massimo Ferrante, la chiave di lettura corretta sarebbe una errata manovra della King Jacob. Con il comandante di quest’ultima reo, per la difesa, di avere causato un eccessivo movimento dell’acqua durante l’avvicinamento, oltre ad avere virato nella direzione sbagliata. Il relitto calato a picco quella notte è stato poi recuperato grazie a un’operazione specifica, costata diversi milioni di euro. Voluta dal governo – all’epoca dei fatti guidato da Matteo Renzi – ma con nessun legame, e utilità, con l’inchiesta giudiziaria della procura di Catania.
In questi anni Alì Malek è stato recluso nella casa circondariale di piazza Lanza, ed è proprio nel carcere etneo che potrebbe continuare a scontare la sua condanna, quando diventerà definitiva dopo la scadenza dei termini per il ricorso in Cassazione, per naufragio, omicidio colposo plurimo e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Senza però mai dimenticare i suoi parenti che si trovano in Tunisia. L’uomo, originario della cittadina costiera di Chebba, continua a sentirli regolarmente. Ad esporsi dopo l’incidente era stato proprio il fratello, indicando il parente come un migrante costretto sotto la minaccia delle armi a mettersi al timone del peschereccio. «Lo hanno portato alla barca – raccontava -. Quando ha chiamato era sotto shock e piangeva».