Storia di silenzi, giustizia e verità

Attraverso questo film ho cercato di tenere la luce accesa su un caso che rischiava di essere dimenticato”. Sono queste le parole di Filippo Vendemmiati, giornalista RAI e regista del documentario “E’ stato morto un ragazzo”, incentrato sull’omicidio del giovane Federico Aldrovandi, proiettato ieri al Teatro del Pavone di Perugia nell’ambito del Festival del Giornalismo.

Federico è morto all’alba del 25 settembre 2005. Aveva diciotto anni ed era un ragazzo come tanti altri della sua età. Studiava per diventare un perito elettrotecnico, gli piaceva la matematica e amava lo sport, soprattutto il calcio e il karate. Nella notte che precedette la sua morte, era andato a Bologna con i suoi amici, aveva bevuto un paio di birre e assunto una piccola quantità di sostanze stupefacenti. Rientrato a Ferrara si era separato dal resto del gruppo per fare una passeggiata a piedi lungo la strada di casa. Ma poco prima delle 6, in via Ippodromo, era stato raggiunto da una voltante della polizia. A lanciare la segnalazione una donna spaventata dal suo barcollare. Forse a causa di una colluttazione, il giovane era stato immobilizzato e ammanettato con le mani dietro la schiena. Alcuni minuti dopo, alle 6:10, veniva contattato il 118. Ma all’arrivo dell’ambulanza Federico era già morto. Gli agenti dichiararono che il decesso era stato causato da un malore provocato dall’assunzione di droghe ed alcol. Ma sul corpo del giovane erano presenti numerose lesioni e ferite che i quattro poliziotti giustificarono come autodifesa rispetto alla tentata aggrassione del ragazzo. Solo in seguito, grazie alla forza e al coraggio dei genitori Lino e Patrizia, alla loro sete di verità e giustizia per la scomparsa del figlio, si scoprì che la morte di Federico non era imputabile a cause naturali, ma alle percosse subite durante l’incontro con le forze dell’ordine. Luca Pollastri, Monica Segatto, Enzo Pontani e Paolo Forlani furono condannati a tre anni e sei mesi di reclusione per il reato di eccesso colposo, mentre altri tre agenti fuorono ritenuti colpevoli di omissione di atti d’ufficio.

Filippo Vendemmiati, con il suo documentario, racconta la storia di Federico Aldrovandi attraverso le testimonianze di genitori, amici, conoscenti e le ricostruzioni della Polizia scientifica corredate dalle immagini dei luoghi in cui si verificararono i fatti. E a chi gli chiede se, secondo lui, giustizia è stata fatta, risponde che è difficile stabilirlo e che è possibile parlare di giustizia a livello processuale perché «per i genitori di Federico, quando l’unica testimonianza era quella di una donna extracomunitaria Anne Marie Tsagueu, riuscire a riaprire il processo e ottenere anche una condanna simbolica, sarebbe stato un successo».

Riguardo all’entità della condanna ricevuta dai quatto imputati, il regista spiega che «la cosa più grave non è tanto che la pena possa essere considerata troppo lieve, ma che questi criminali condannati in primo grado, siano ancora in servizio, nonostante i fatti abbiano dimostrato come si tratti di persone inadatte a svolgere questo lavoro».
E ancora, Vendemmiati si domanda e chiede ai presenti quale possa essere la logica di un paese come l’Italia in cui il suo documentario viene riconosciuto ed apprezzato ottenendo premi come il David di Donatello, mentre Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, è stata querelata e rinviata a giudizio per diffamazione per aver scritto sul proprio blog le stesse cose contenute nel suo film…

La proiezione si conclude e l’autore, rivolgendosi al pubblico in sala, aggiunge: «Federico non è stato ucciso dalla polizia, ma da quattro persone che quella divisa la vestivano solo impropriamente».


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