Il trentaduenne tunisino dal 2009 vive nel capoluogo siciliano. «Sono venuto per completarmi, non ho più saputo andarmene». Studia per mesi il congiuntivo e il periodo ipotetico, ma presto scopre l’importanza del dialetto e che «tutti usano solo il passato remoto», il buon cibo di cui non facciamo che parlare e gli eroi come padre Pino Puglisi
Storia di Abdoul, dagli studi all’amore per la città «Resto per aiutare con la Caritas chi è in difficoltà»
«Palermo è bella. Peccato però, le mancano un po’ di cose». La pensa così un trentaduenne tunisino che chiameremo Abdoul. Vive qui dal 2009 e in pochi anni si è innamorato del capoluogo siciliano. Ha vinto una borsa di studio che gli ha permesso di frequentare un master in business internazionale e politiche pubbliche organizzato dal Cerisdi. Per frequentarlo lascia a metà quello iniziato in Tunisia. «Sono venuto qui per completarmi, non è stato facile convincere i miei genitori – dice – un conto è stare via un paio di settimane, un altro è studiare per anni lontano da casa». Finito il master, però, i progetti cambiano di nuovo. Gli viene offerto un contratto e un posto di lavoro. Dopo pochi mesi in Tunisia scoppia la rivoluzione: «Che ci vado a fare proprio adesso?», si chiede. Quindi aspetta che si calmino le acque e inizia un nuovo percorso a Palermo: «Sono qui da otto anni». La vicinanza con la terra d’origine gli permette di fare avanti e indietro, «è qua a due passi, un’ora di volo, se sali su Monte Pellegrino la vedi», scherza.
Ad accoglierlo tutte le volte che torna ci sono quattro tra fratelli e sorelle, rimasti lì con i genitori. «Quando torno a casa, non so nemmeno più se sto rientrando o se sto partendo. È lo stesso quando torno a Palermo: non so se sto partendo o se sto rientrando», dice della città che ormai sente come una seconda casa. «Quando vivi qui cominci ad assorbire tutto e ad arricchirti con la cultura del posto in cui ti trovi e della società che ti ospita». In occasione del trasferimento impara subito a destreggiarsi tra congiuntivo, imperfetto e periodo ipotetico, «c’ho messo tre mesi per imparare ad usare bene queste cose, poi ho fatto un salto a Ballarò e mi sono accorto che tutti usavano solo il passato remoto – dice ridendo – Il dialetto qui lo vivono, per una persona che viene da fuori e che come base ha solo qualche scarna nozione di italiano come primo impatto è forte». «Mentre al nord si sforzano di mantenere le distanze, qui basta rivolgere qualche parola a uno sconosciuto al bar e il passaggio dal lei al tu è brevissimo – continua – si parla subito di calcio o di un piatto preparato da qualche moglie».
Di Palermo ha imparato da subito ad amarne il calore e la spregiudicatezza: «La gente è senza peli sulla lingua, ti guardano e ti capiscono al volo». E come in tutte le città, bene e male convivono e si danno il cambio: «Ehi cumpà hai bisogno di qualcosa?», si sente dire spesso attraversando il cuore del centro storico, «pensavo “ma quanto sono accoglienti qua!”, poi ho capito che si trattava di altro, non possiamo negarlo, fa parte del tessuto sociale e queste cose esistono dappertutto. Il segreto sta nel salutare e tirare dritto». Si intristisce di colpo, Abdoul, quando parla delle tante persone che Palermo hanno dovuto lasciarla. «Qui le risorse ci sono ma forse sono gestite male – spiega – Non sono d’accordo col dire che ci sono paesi ricchi e paesi poveri, direi piuttosto che ci sono uomini che sanno sfruttare bene strumentazioni e risorse e altri invece che pensano solo ad approfittarsene».
«Da noi si dice “Dio non cambia un popolo se questo popolo non cambia se stesso”, c’ho ripensato dopo aver visto l’ultimo film di Ficarra e Picone – dice – Vogliamo tutti il cambiamento solo che nessuno vuole cominciare da sé, si vuole sempre cominciare da chi ci sta accanto, dall’altro». A Palermo, però, Abdoul mette la sua sensibilità e il suo impegno a disposizione di chi è in difficoltà. «Lavoro per la Caritas diocesana come mediatore culturale nel centro di accoglienza per persone fragili e senza dimora». Palermitani, stranieri, famiglie sfrattate e detenuti con un permesso premio, sono diverse le categorie con cui si confronta ogni giorno. Lavoro che gli ha permesso di vedere da vicino tutto quello che prima aveva solo studiato e letto sui libri: «Parlare con la gente mi ha permesso di conoscere le loro storie, mentre prima per me erano solo dei numeri, delle statistiche». Fra le persone a cui presto il suo sostegno ci sono anche molti migranti: «Hanno perso famiglie, amici, memoria. Affrontano il viaggio non per ricominciare secondo me, ma per salvare il salvabile. Se uno scappa dal posto in cui è nato e cresciuto, mettendo a rischio la propria vita e quella dei propri figli, affrontando l’ignoto del mare, significa che c’è un motivo forte dietro. In molti mi hanno raccontato storie e cose che neppure loro sanno ben descrivere, perché non si può descrivere la guerra. Viviamo in un mondo crudele, spinto dall’egoismo, dalla sopraffazione e dalla cecità».
Ma lavoro a parte, a tenere a Palermo Abdoul non sono soltanto l’atteggiamento della gente e il buon cibo. Sono anche le sue storie, i suoi eroi. «Padre Pino Puglisi mi ha colpito subito per il suo impegno – racconta – un uomo che non si è limitato a fare solamente il religioso, è sceso in campo e ha lasciato le sue impronte. “Se ognuno fa qualcosa”, diceva lui. Se ci affidiamo ad un’unica persona per il cambiamento, in pratica la condanniamo al fallimento». Lo colpisce soprattutto il suo sorriso, quello con cui ha affrontato anche quella mafia che alla fine gli ha presentato il conto: «Il sorriso è una cura, è un modo di rapportarsi con le persone, può ridurre le distanze, è una forma di accoglienza, è un rifugio, è un consiglio. Lui andava verso i giovani, era all’interno dei giovani, aveva capito che loro rappresentano il domani, non parlava coi grandi, coi genitori». Su cosa salvare di Palermo risponde con sicurezza: «I giovani, e lo si può fare dando loro una buona istruzione». E da cambiare, invece? «Palermo è bella così, con le sue contraddizioni».