Storia della stagista fantasma

Questa è la storia di una ventiquattrenne – Valeria Gentile – che, laureata in “Media e Giornalismo” a Firenze, lavora come giornalista, blogger e fotoreporter. Una «sarda fuori sede, poliglotta fuori forma ed elemento fuori schema» come ama definirsi lei, che sente di avere dentro di sé da anni una caratteristica: la passione per la scrittura e per il reportage. La stessa che l’ha portata a raccontare – con i suoi occhi e la sua penna – la tragedia de L’Aquila, degli alluvionati della provincia di Messina, il potere del Vaticano, la vita quotidiana in Senegal e altre storie. La stessa passione che l’ha costretta – per non inaridirsi – a fuggir via dalla redazione di una rivista in cui era stagista. Una redazione dalla quale è scappata dopo averla a lungo agognata (e forse mitizzata?): «L’avevo osservata nei miei sogni per anni, quella redazione – scrive Valeria sul blog –  L’avevo immaginata così intensamente e nei minimi dettagli che quando ci sono entrata per la prima volta mi era sembrata l’ennesima e ogni scrivania, ogni sedia e ogni finestra sembrava appartenere alla mia storia. Una storia che era cominciata alle lezioni universitarie per matricole, tra le pagine di una rivista speciale che è entrata nei cuori di almeno due generazioni di italiani motivati a capire il mondo per cambiarlo».
 

Valeria, nel tuo articolo “Reportage alla rovescia: viaggio all’interno del giornalismo italiano” parli di stagisti come di «fantasmi senza identità, seduti accanto a redattori non intenzionati a conoscerli». I nuovi arrivati sono o sfruttati o degradati. Secondo te perché succede anche in redazioni prestigiose che a parole sono a favore del merito e dei giovani? 

«Secondo me l’origine di questa degenerazione è la pigrizia umana. L’abbrutimento causato dal prestigio che porta a tirare i remi in barca e campare di rendita. Ho l’impressione che, una volta arrivati a destinazione, ci si dimentichi del viaggio che ha portato ciascuno fin lì, perdendo la voglia di essere migliori e passionali. Credo che chi vale veramente, dentro a una redazione non ci sa stare: e non parlo di me, ma di giornalisti che conosco che hanno mollato una scrivania sicura per salvaguardare la propria creatività e libertà intellettuale».  

 

Antonio Sofi scrive di te – nell’introduzione all’ebook digitale del tuo reportage “Storie d’oro e di fango” – che sin da quando eri una studentessa hai sempre voluto fare «la vecchia reporter alla nuova maniera» cioè usare i nuovi media per rinnovare l’antico format. Perché sognavi di entrare in quella redazione? In concreto cosa avresti voluto imparare?

«Ho un concetto nobile del mestiere di giornalista e un’idea romantica del giornalismo in generale. Credevo che lavorare all’interno di una redazione, con persone di un certo livello culturale e stimolanti, mi avrebbe insegnato a capire le dinamiche del processo giornalistico e l’importanza di una notizia rispetto a un’altra. Invece ho visto solo il lato economico dell’editoria e una catena di montaggio intenta a costruire un prodotto».

 

Da quando hai iniziato a scrivere ad oggi, ti aspettavi che il “sistema stage” avrebbe preso questa brutta piega?

«Non ne sapevo molto di che piega avessero prima, perché con le redazioni ho sempre avuto un rapporto freelance-cliente: propongo, rifiutano o pubblicano. Né di quella che hanno preso ora, prima di sbatterci il muso».

 

Almeno il tuo primo giorno di stage è stato come te lo aspettavi? Qual era il ‹‹piccolo degradante compito›› che ti veniva assegnato ogni volta?

«Avevo conosciuto quella redazione da lettrice, mi avevano persino regalato dei libri e l’abbonamento per un anno. Quando poi sono diventata una stagista, la delusione è stata doppia: ero un dettaglio irrilevante, nemmeno una risorsa da sfruttare. Il mio compito era di schematizzare in una riga le quattro principali notizie del giorno, per la newsletter agli abbonati; a volte un post sul blog della rivista. Avevo cercato, nel tanto tempo che restava, di creare uno spazio sociale online – moderno e interattivo – ma mi è stato subito ordinato di chiuderlo». 

 

Per quale motivo chiuderlo? 

«Non si fidavano del fatto che avrei svolto un lavoro in linea con la rivista: mi è stato detto chiaramente: “Non lo so, tu puoi anche scrivere “bruciamo questa città”, a nome della rivista”».

 

Nel “dimetterti” cosa hai detto ai capi di quel giornale a cui non interessavi?

«Da domani non vengo più. Perché mi sembra di non dare né ricevere niente, né a livello professionale né a livello umano. Preferisco quindi sfruttare il mio tempo in modo più concreto».

 

Dopo il tuo articolo hai ricevuto qualche spiegazione dalla redazione? Come tratteranno d’ora in poi gli stagisti?

«Dopo aver letto il mio articolo, il direttore mi ha telefonato. E’ stata una conversazione pacifica, in cui però c’era poco confronto: io esprimevo la mia delusione rivendicando la mia incompatibilità con quel sistema; lui cercava di convincermi che tutto quello che dicevo nell’articolo non era vero. Non tratteranno meglio gli stagisti, perché hanno deciso di non prenderne più, dal momento che non ero la prima a creare problemi. La cosa che mi ha lasciato più perplessa è che mi è stato detto che non avrei dovuto rendere pubblici i miei pensieri, significativo per qualsiasi giornale che abbia come unico motore morale quello di pubblicare cioè rendere pubblico».

 

Perché non hai reso pubblico il nome della rivista?

«Per questione di stile».

 

Da questa esperienza che insegnamento ne hai tratto?

«Ho imparato una lezione di autostima: non è detto che chi sia “già arrivato” o goda di più “prestigio intellettuale” rispetto a noi, sia più meritevole o più in gamba. Prima invece la pensavo così. Adesso ho più forza per lottare in nome di quello in cui crediamo in molti. La cosa più triste che ho imparato, però, è che i veri nemici della cultura e del giornalismo non sono i padroni, ma i servi. Quelli cioè che non si ribellano a tutto ciò».

 

Come lo vedi il futuro per gli aspiranti giornalisti? Continuerai a fare l’editor di te stessa?

«Credo che ormai, soprattutto con la crisi dell’editoria tradizionale e della carta, queste realtà sono destinate a fossilizzarsi e imbalsamarsi con le loro stesse mani. Quindi sono felice di vedere intorno a me sempre più giovani aspiranti giornalisti che si rimboccano le maniche e stanno ben lontani dagli ambienti asfittici delle redazioni, lavorando con taccuino e fotocamera, blog e piattaforme sociali. Il giornalismo ha solo da guadagnarne».

 

 

Foto di Gilles Marangon Finotello.

Stefania Oliveri

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