Siria, presidio per la pace in Prefettura Il cronista: «La guerra c’è già da due anni»

«La guerra in Siria c’è da due anni, ma solo ora l’opinione pubblica si divide tra favorevoli e contrari all’intervento americano». Alessandro Di Maio è un giornalista siciliano che osserva la crisi siriana da un punto di vista privilegiato: da tre anni vive a Gerusalemme e segue per alcune testate, non solo italiane, quello che succede in Medio Oriente. «Della guerra civile siriana si parla da tempo – commenta – e non è vero che i media l’hanno dimenticata, ho eletto diversi articoli e reportage in questi mesi». Eppure in queste settimane in Occidente si moltiplicano i presidi in favore della paceCatania non fa eccezione con il sit-in di ieri pomeriggio, quando poco più di 50 persone – chiamate a raccolta dal comitato Viva la costituzione insieme al movimento No Muos-No Sigonella – si sono riunite sotto alla prefettura etnea. Una delegazione è stata accolta dai dirigenti prefettizi, «in questo caso i nostri tramite con il governo regionale e nazionale», spiega Claudia Urzì, del comitato. «Durante l’incontro, io ho fatto presente che la Sicilia non può diventare un avamposto di guerra, una portaerei – continua – E ho posto l’attenzione sul tema dell’immigrazione, in una regione che non ha ancora una legge nonostante i proclami del governatore Rosario Crocetta».

«Occorre imparare dalla storia – si legge nel documento presentato dai manifestanti – Bisogna lavorare alla prevenzione dei conflitti e per il rispetto dei diritti umani». Anche perché, sottolineano, ce lo dice la costituzione nell’apposito articolo 11. Per questo dal comitato Viva la costituzione si chiede «al Parlamento di pronunciarsi per la condanna degli interventi militari, quali che ne siano gli autori, e per impegnare il Governo a rendere indisponibili tutte le basi militari italiane, Usa e della Nato». Proprio nel momento in cui l’opinione pubblica mondiale aspetta il voto del Congresso degli Stati Uniti d’America che deciderà sull’attacco militare. «Credo che questa volta gli Usa non vogliono intervenire, ma si sentano costretti – spiega Di Maio – La Siria non è come la Libia, le conseguenze negative sono molte di più dei possibili vantaggi: non ci sono grandi interessi economici o energetici in ballo, Assad ha le spalle coperte da potenze internazionali, se si inizia non si sa davvero dove si va a finire».

Ecco perché, secondo il reporter siciliano, l’intervento avrebbe più «un valore strategico», «dare un segnale all’Iran: in un sistema internazionale l’uso di armi chimiche non è ammesso». E’ la famosa linea rossa che il regime di Assad avrebbe superato, secondo le prove portate dal presidente Barack Obama. Cosa cambia tra mille morti causati da napalm o fosforo, e altrettanti causati da armi convenzionali? Una domanda a cui si fa fatica a rispondere. «L’Occidente rifornisce con armi i ribelli, in modo che le due parti si fronteggino più o meno alla pari, ma l’uso di armi chimiche cambia questo scenario», commenta Di Maio.

Ma la sfida in gioco in Siria è di portata più ampia e rientra in quella che sta coinvolgendo anche gli altri Paesi coinvolti dalla primavera araba. «Venuti meno i dittatori, l’Islam si ritrova ad un bivio tra un sistema teocratico, sul modello dell’Iran, e una strada laica, sul modello della Turchia. Sta succedendo in Tunisia, in Libia, in Egitto e adesso anche in Siria, Paesi in cui la società è totalmente polarizzata dall’odio tra laici e religiosi». Il freelance di stanza a Gerusalemme porta come esempio i Fratelli Mussulmani in Egitto: «Nessun occidentale li definirebbe dei terroristi, come invece sono dipinti da una parte della società egiziana». Polarizzazione che a Damasco diventa ancora più complicata. «Ci sono i cristiani, i musulmani sciiti, i sunniti e gli alawiti – analizza Di Maio – La Siria è un pezzo fondamentale del sistema sciita-iraniano e un gruppo relativamente piccolo come quello degli alawiti, di cui fa parte la famiglia di Assad, ha comandato su un Paese a maggioranza sunnita».

Distinzioni etniche su cui fanno leva stati limitrofi potenti e ingombranti, come l’Arabia Saudita e il Qatar, entrambi sunniti, che, sottolinea il cronista, «stanno cercando di conquistare il monopolio sull’intero Medio Oriente e sul Nord Africa, ma che per alcuni aspetti sono anche peggio dell’Iran». Eccolo il risiko delicatissimo su cui andrà ad esplodere l’eventuale intervento statunitense e che da Gerusalemme si guarda con l’apprensione di chi ha di fronte una minaccia esistenziale. «La gente in Israele è nel panico – racconta Di Maio – il governo ha distribuito maschere antigas, l’esercito ha richiamato i riservisti, ma sanno anche che un attacco missilistico contro le principali città scatenerebbe una guerra in cui Israele rappresenta pur sempre la potenza militare più forte della regione. Più verosimilmente mi aspetto degli attacchi da parte di Hezbollah dal sud del Libano verso il nord di Israele, scenario che già in passato abbiamo vissuto».

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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