Sindrome da eterno terzo, addio!

Ho sempre vissuto con la “Sindrome da terzo classificato”. Al primo concorso a cui partecipai, nello specifico riguardava la recensione di un film, arrivai terzo, in mezzo a tanti aspiranti in tutta Italia. Presi l’aereo, salii a Pordenone, ritirai il premio, baci abbracci e foto. Dopo qualche anno mi richiamano, sempre lo stesso concorso, di nuovo terzo. Risalgo, ma in treno, e col magone. Comincio ad essere perseguitato da quel Tre e da quella sensazione amarognola di chi vorrebbe prepotentemente di più, da se stesso e dal destino. Perché non si può dire che io sia braccato dalla sfiga, ma da qualcosa di più subdolo sì, dato che qualche anno dopo mi chiamano per un concorso indetto dalla mia facoltà e… indovinate? Ero arrivato terzo. Per la terza volta consecutiva…

La norma vorrebbe che io adesso dicessi: “Ma io non ci speravo minimamente, non ci tenevo per niente”. Non è così, non lo è per nessuno e non lo è per me. Forse soffro di poca autostima in quello che scrivo, odio me stesso per la scarsa capacità di fermarmi quando dovrei e non lasciare scorrere le dita sulla tastiera in maniera irrazionale. Ma scrivo perché voglio che venga letto, giudicato, male o bene, ma giudicato. La “terza posizione” è un limbo: non hai fatto tanto schifo da cestinarti subito ma non sei stato nemmeno eccezionale. Io volevo esserlo. Chi con la passione della scrittura non sognerebbe di esserlo?

Ci riprovai quindi, una mattina di fine Aprile. Dopo aver sognato un ricordo, un ricordo in mezzo ai tanti dell’anno precedente, passato a svolgere il Servizio Civile. Un ricordo che poi ovviamente ho trasfigurato, plasmato secondo le mie necessità, la più importante delle quali era descrivere tramite le parole (e gli odori, e le sensazioni) di un non-vedente il Monastero in cui bazzico da ormai quattro anni, nell’agognata conquista della laurea. L’ho scritto, riscritto, perfezionato in ogni minima sfumatura e consegnato.

Era metà Maggio. La norma vorrebbe che io adesso dicessi: “Da allora non ci pensai più, l’ho scritto tanto per, nemmeno ci speravo”. Non è così: la verità è che da quando ho lasciato quella busta con quel dannato racconto, ci ho pensato e ripensato ogni singolo giorno. Studiavo, perdevo la concentrazione, aprivo il file word, rileggevo quelle parole e pensavo: “Ecco, hai sbagliato la punteggiatura. E qua c’è un errore di battitura. E che idee del cazzo che ti sono venute in mente! Hai visto che non vincerai mai, coglione”? Lo rileggevo, barricato nella mia afosa stanza, e trovavo sempre più retorici e smielati pezzi che prima sembravano sublimi. Leggevo, a volte cancellavo, cambiavo, modificavo, inutilmente, mentre la mia consorte mi fissava come se fossi diventato Russell Crowe in A beautiful Mind. Chiedo il suo giudizio, chiedo ausilio alla Capa, chiedo e nel frattempo leggo, e spero, poi mi dico di non farlo, lascia perdere.

La “Sindome da terzo classificato” si era ufficialmente trasformata in pazzia. Credo di averla finalmente sperimentata, l’ossessione, a livelli maniacali. Ma c’era qualcosa che mi impediva di fermarla: forse, sotto sotto, la strisciante convinzione che quel racconto non facesse schifo, che c’era dentro qualcosa che non pensavo sarebbe mai fuoriuscito dalla mia mente. Che fosse la cosa più bella che la mia testa bacata avesse mai partorito. Era una convinzione, del tutto soggettiva, e nemmeno tanto solida. Neanche adesso ce l’ho, adesso che una telefonata mi ha avvertito che sì, sono arrivato primo, per la prima volta nella mia vita sono arrivato primo. Non importa del premio, o meglio mi importa eccome, ma quello che davvero importa ora è che la “Sindrome del terzo” se ne sia andata.
Esco dal tunnel ora, e vado dai miei amici, a coglioneggiare, la mente libera, finalmente. Forse non parteciperò mai più a nessun concorso, forse non scriverò mai nulla di valido, forse non avrò mai più nulla di valido da scrivere come quella volta, la volta in cui scrissi di un cieco, di un rimorso nascosto e di un monastero. Ma la “Sindrome” se n’è andata. Non la scarsa autostima, quella mai. Ma forse è proprio quella che mi ha salvato dalla disperazione totale, dal buio.

Quella, e tu. Ti amo.
Grazie.


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