Il backstage della trasmissione Report, le difficoltà del giornalismo d'inchiesta e il rapporto con una figura simbolo di Catania, Giuseppe Fava, raccontati dal vincitore dell'edizione 2010 del riconoscimento intitolato al giornalista etneo- «Il giornalismo con la schiena dritta»
Sigfrido Ranucci, un rompiscatole da premio
Il seltz limone e sale non gli piace, eppure Catania gli ha conferito un riconoscimento. È Sigfrido Ranucci, giornalista della trasmissione d’inchiesta Report, il vincitore del premio Giuseppe Fava 2010. Nell’aprile scorso Ranucci ha realizzato, in collaborazione con il collega catanese Antonio Condorelli, un’inchiesta sulla città etnea. Scandali, buchi nel bilancio e malgoverno che, anche se risaputi, nessuno aveva ancora avuto il coraggio di mostrare. Jeans e camicia, schietto e alla mano, lo abbiamo incontrato subito dopo la premiazione, per farci raccontare di lui e dei retroscena di una delle trasmissioni più discusse della Rai.
Subito dopo la messa in onda dell’inchiesta I Viceré, alcuni intellettuali e personalità catanesi si sono spesi sulle pagine del quotidiano locale La Sicilia in difesa dell’onore della città. Quando hai saputo di aver vinto il premio Fava, cosa hai pensato?
«È stata una sorpresa molto piacevole, anche perché pochi giorni dopo il servizio avevo ricevuto una telefonata dall’entourage di Fava: mi fecero notare che non avevo citato la morte di Pippo Fava e non avevo intervistato nessuno a riguardo. Ho risposto che era stata una scelta consapevole, perché volevo evitare che si pensasse ad un ispiratore locale del servizio. Ho solo cercato di raccontare i fatti».
Ma tu come ti poni nei confronti di una figura come quella di Pippo Fava?
«Ho una sensibilità particolare: nel 2000 ho intervistato Maurizio Avola, l’uomo che l’ha ammazzato, e non lo scorderò mai. Lo incontrai in carcere e nel darmi la mano disse: “io di giornalisti me ne intendo”. Mi sono sentito gelare, anche perché fisicamente è enorme, un uomo che mette paura. Comunque il modo migliore, per me, per onorare la memoria di Fava è quello di essermi comportato come ho fatto, realizzando l’inchiesta».
Per un giornalista d’inchiesta, di un genere così poco presente in Italia, qual è la sensazione che si prova a ricevere un riconoscimento come questo?
«È uno stimolo a far sempre meglio. Un premio non è mai un punto di arrivo, ma di partenza. E’ come se da quel momento in poi avessi un carico di responsabilità maggiore».
Entriamo nel backstage della trasmissione Report. Quali sono i tempi per la preparazione di una inchiesta e qual è il suo costo medio?
«Da quando sono anche co-autore di Report ho circa tre mesi per la realizzazione. Sono spesso l’ultimo a partire e il primo a dover consegnare, perché poi mi devo dedicare alla trasmissione nel suo complesso. Gli altri collaboratori hanno un po’ più tempo. Per i costi, invece, siamo intorno ai 40mila euro, compreso il compenso del giornalista».
Un bel costo da sostenere, senza contare le numerose querele e richieste di risarcimento che ricevete. Che succede a quel punto?
«All’inizio non dormi perché pensi “che cavolo ho combinato?”. Poi ragioni, arriva la fase “ma che dice questo?” e cominci a rispondere punto per punto. Le memorie difensive le scriviamo noi, mica gli avvocati: spesso trascorro i miei cinque, sei giorni di ferie all’anno per metterle giù. Per non parlare di quando ti querelano dopo quattro o cinque anni dalla messa in onda: nemmeno ti ricordi più. Penso che una seria campagna per l’informazione libera dovrebbe cominciare col chiedere degli sbarramenti alle cause civili per risarcimento. A Report ne abbiamo 40 in totale e, personalmente, ne ho accumulate per 16-17 milioni di euro».
Quindi la tutela legale è fondamentale. Qualche mese fa c’era la possibilità che la Rai ve ne privasse. Come è andata a finire?
«La tutela è rimasta, anche perché si sono accorti che toglierla non sarebbe possibile. Io sono l’unico giornalista interno Rai a Report, gli altri collaboratori sono tutti freelance, e il nostro controllo editoriale prevede che ogni pezzo venga visto dal direttore di rete e dal capo struttura. Quindi la Rai non può far altro che tutelarci, ha la responsabilità oggettiva».
Ma quando vi presentate come giornalisti di Report, quali sono le reazioni? Soprattutto ai piani alti, dove siete considerati molto scomodi…
«Diventa sempre più difficile, ma le reazioni sono di ogni tipo. Ci sono quelli che spariscono e cercano di evitarti nella maniera più assoluta. È scontato. Ma ci sono anche quelli che ti mettono a disposizione tutto, perché hanno paura di chissà che cosa».
E dopo la trasmissione? Al di là delle querele, nell’immediato che succede? Immaginiamo una redazione con il telefono che squilla come impazzito, le porte che sbattono, urla ovunque…
«Succede di tutto, in effetti. Report ha circa tre-quattro milioni di telespettatori in media, una diffusione tale che a volte succede di parlare dell’avvocato Francesco Rossi, magari di Catania, e ti chiama un avvocato omonimo, giusto di Catania, con la pretesa che si specifichi che colui di cui si è raccontato in trasmissione non è lui. Al di là dei paradossi, se sbagliamo rettifichiamo sempre. Ma se crediamo di essere nel giusto no».
A proposito del fatto che siete considerati dei rompiscatole: a volte Report viene accomunato a trasmissioni come Anno Zero e Ballarò, tutti etichettati come programmi di “controinformazione”. Cosa ne pensi?
«Non l’ho sentito dire molte volte, ma di recente il Qualitel (il misuratore di qualità della Rai n.d.r.) ha definito Report la migliore trasmissione della rete e del panorama televisivo italiano. Una volta però ricordo un attacco clamoroso di Silvio Berlusconi, che ci definì farabutti. Credo ce l’avesse con me, e so anche il perché».
Vogliamo saperlo anche noi. Perché?
«Proprio nell’inchiesta su Catania I Vicerè sono stato il primo a parlare della farmacia dove il presidente del Consiglio si forniva dell’elisir di lunga vita, che poi si scoprì essere doping. Guarda caso, dopo la trasmissione, l’attenzione si è focalizzata sulla vita privata di Berlusconi. Penso quindi che lui mi abbia immaginato come parte di un complotto, ma in realtà non è così».
Chiudiamo con un consiglio e un parere. Data la tua esperienza, cosa dici a chi vuole fare questo mestiere? E quali sono, secondo te, le caratteristiche che dovrebbe avere un buon giornalista d’inchiesta?
«La cosa più importante è misurarsi continuamente con i fatti, analizzando costantemente la realtà, documentandosi e sentendo sempre più fonti. È importante anche saper mettere in dubbio la propria capacità di comprensione dei fatti e sapersi estraniare. Io mi chiedo sempre: “cosa penserei se gli altri dicessero di me quello che io sto scrivendo di loro?”. Ma soprattutto, bisogna crederci. Io sono partito in maniera semplice, scrivendo su dei giornaletti, sono entrato in Rai come assistente al programma e da solo, col tempo e lavorando, ho fatto quello che ho fatto».