Un concetto affatto nuovo ma che non trova corrispondenza nei termini normativi. Secondo i quali, per essere condannati come mafiosi, servono ancora oggi violenza e minacce. A sottolineare il pericolo di un nuovo sorpasso di Cosa nostra rispetto alla giustizia è il giudice di Messina che ha disposto l'arresto di 30 persone
Santapaola a Messina, l’ascesa della mafia 2.0 «Non spara ma compra, va ripensata la legge»
«Vi è una difficoltà umana a valutare una mafia che non spara, non spaccia, non fa estorsioni». Una mafia di laureati, professionisti, imprenditori e «tante giovani brillanti menti». «Una mafia che cambia pelle e sale di piano, il nuovo sistema». Sono solo alcune delle definizioni usate dal giudice per le indagini preliminari di Messina, Salvatore Mastroeni, per spiegare le difficoltà di un’indagine che ha portato all’arresto di 30 presunti esponenti del clan Santapaola nella città dello Stretto e dei loro fiancheggiatori.
Parole a tratti intrise di frustrazione per i tempi lunghi della giustizia che impongono di terminare le inchieste quando ancora l’associazione ha «mille attività in corso con un’inquietante apertura sul salotto buono della città e margini di impunità». E mentre gli altri delinquono, i magistrati si fermano, «anche anni, a scrivere motivazioni, spesso eleganti». Burocrazia necessaria, a tratti «macchinosa e ripetitiva», ma che dilata i tempi. E non solo. Nelle parole del gip, alla frustrazione sembra seguire una richiesta di aiuto, non proprio nuova ma quanto mai urgente: modificare l’articolo 416 bis del codice penale, che mira alle associazioni mafiose, rendendolo più aderente alla realtà di oggi di Cosa nostra. Alla «mafia 2.0».
Alla base del reato c’è soprattutto la forza di intimidazione. Caratteristica delle associazioni criminali ancora oggi utilizzata dai magistrati per individuare e condannare gli esponenti mafiosi. Ed è sempre l’eventuale uso delle minacce e della forza a distinguere gli associati dai concorrenti esterni, cioè da coloro che appoggiano Cosa nostra pur non facendone parte. Negli anni il dibattito sul reato di concorso esterno alla mafia si è fatto sempre più vivace. Un istituto giudicato inadeguato per colpire quella zona grigia di politici e imprenditori che, pur non essendo uomini d’onore, non possono nemmeno definirsi del tutto esterni alla mafia, facendo favori a volte nemmeno richiesti e traendone benefici. Mentre questo dibattito non si è ancora risolto, il giudice Mastroeni alza il tiro: a non bastare più è innanzitutto la norma sull’associazione mafiosa in sé. Perché a cambiare, sempre un passo avanti alla legge, è stata proprio la mafia.
«Fino a ieri, un giovane di belle speranze associative, magari nullafacente e un po’ violento, con le frequentazioni e i legami giusti, anche con la sola disponibilità a compiere reati (se poi per una volta portava la pistola era fatta) era valutato tranquillamente un associato», spiega il giudice. Oggi invece, continua il magistrato, i mafiosi sono laureati, fanno riunioni e strategie. Dal loro mondo di mezzo – sommerso, illegale – stanno salendo al «mondo di sopra», quello della vita quotidiana, degli appalti pubblici e della politica. E ci stanno arrivando «con la giacca pulita». Indumento che, ricorda Mastroeni, non basta più per distinguere i profili mafiosi e para-mafiosi: «Oggi forse non è più tempo che gli uomini in giacca siano valutati esterni rispetto alle bande di villani armati». Anche perché di armi, ormai, ne girano poche. Almeno ai vertici.
È ancora il giudice a spiegare come nel caso di Messina, ma non solo, sia stato proprio Vincenzo Romeo, ritenuto il capo dei Santapaola nella città dello stretto, a volere la quiete. Niente estorsioni, niente violenze, niente minacce, se non nei confronti dei comuni delinquenti che rischiano di turbare la calma e richiamare l’attenzione delle forze dell’ordine. Ad alti livelli, alla minaccia di violenza fisica si è sostituita quella di estromissione dagli appalti. «La guerra porta carcere, 41bis e condanne. I soldi girano senza violenza». E girano nei business di alto livello, ma anche in ristoranti, supermercati, piccole imprese. Senza snobbare le forniture di pannoloni per i malati. «Ambiti popolari e lucrosi con attività illecite più facilmente occultabili». Con giusto qualche richiamo nostalgico alla tradizione, rappresentata dalle corse dei cavalli e dalle scommesse.
«La forza di intimidazione è al massimo richiamata, basta il nome – continua il giudice – Il mondo di sopra è più complice che vittima. La gente è supina, non sa, non ha potere, non lotta, non conta. Più che sotto omertà, è vinta». O, in alcuni casi, viene comprata. Ogni tanto però Romeo dimentica il nuovo galateo mafioso che lui stesso ha imposto ed è lì che riesce a farsi spazio la giustizia. Ma cosa succederebbe se la mafia apprendesse del tutto le regole del mondo di sopra? Mondo nel quale, d’altronde, ricorda sempre Mastroeni, corruzione e illeciti non sono certo dei concetti nuovi, anche senza mafia. «Nel caso in cui i due mondi si incontrano la gravità del fenomeno è allo stato incalcolabile e, volendolo, forse andrebbe ripensata».