Sandro Di Bernardo e l’anima rock di uno chef Sudditi e rose, il nuovo album in dialetto siciliano

Sandro Di Bernardo è un uomo che non può rinunciare alle passioni. Musicista siciliano, dopo aver sfiorato le alte vette dello show-business decide un giorno di lasciare la musica per mettersi dietro ai fornelli. Quelli dell’alta cucina. Portando le sue abilità in giro per il mondo, in una spirale di emozioni e avventure in cui non c’è spazio per i rimpianti. Perché è ciò che accade quando si crede «in una sorta di predestinazione che ci porta a intraprendere un cammino piuttosto che un altro».

La scalata dell’aspirante artista prende avvio nell’87 con i Kristal dream, una punk rock band balzata agli onori delle cronache per aver suonato al Marabù di Giardini Naxos con Ronnie Wood (leggendario bassista dei Rolling Stones). Due anni dopo il musicista prende al volo l’invito di Franco Battiato e canta nel suo album L’ombrello e la macchina da cucire. Una tappa fondamentale che lo porterà, in seguito, al passaggio sul palco del Festivalbar nel ruolo di supporter di Valeria Rossi (non si dimentica il tormentone dammi tre parole, sole, cuore e amore). Un percorso artistico che a prima vista sembra facile, coronato dal prestigioso contributo offerto al disco solista di Jim Kerr (lo storico leader dei Simple Minds). 

Un cammino fatto di sorprese, di entusiasmo ma anche di delusioni. Sino alla scelta sofferta di lasciare la musica, nel 2001, con la scoperta di una nuova passione: la cucina. L’esordio è quello di apprendista cuoco in un piccolo ristorante etnico di un amico. Che lo porterà nel 2013 a firmare per una holding di Dubai in qualità di Executive chef.  I grandi amori, però, non finiscono mai. Non è possibile cancellarli. Sandro decide allora di rituffarsi nella musica, ripartendo proprio dalla Sicilia. Perché lui è «una dolce vittima dell’amore per questa terra»

Così, insieme ad un gruppo di lavoro composto dal produttore Ottavio Leo e da Flavio Gullotta (basso), Francesco Frudà (chitarre), Joe Favorito (batteria) Dario Miano (sax) e Gianfranco Fichera (special guest alla chitarra), realizza un disco in dialetto. Sudditi e rose (questo il titolo) è composto da nove tracce e quattro bonus track, rivisitate alla luce di pensieri messi su carta in questi anni. Il cd è già presente nei negozi ma verrà ufficialmente presentato il 9 settembre a Giardini, nella sede dell’Advanced Music Club, la giovane struttura creata per la musica dal vivo da Andrea Avanzato. Il lavoro discografico è supportato dal video clip di Sicily, il primo singolo tratto dall’album, pezzo dedicato alla figura di Paolo Borsellino. 

Dopo anni di separazione dalla musica, ha deciso di riprovarci. Cosa è successo? 

«Sono sempre stato un musicista – spiega l’artista a MeridioNews – Ho interpretato il mio lavoro di chef ragionando come il leader di una band, immaginando che il pubblico fosse semplicemente seduto a tavola. La musica non è una passione che si scopre, ma una maledizione genetica. Un virus dell’anima. Che sceglie il momento di assopirsi e di esplodere improvvisamente. Di nuovo. È stata determinante una domanda di mio figlio: «Papà perché non suoni più?». Alla fine l’ho pure convinto a cantare con me in un pezzo».

Per il suo ritorno perché ha scelto il dialetto?

«Avevo già registrato un album in dialetto nel ’94. Dopo la lunga vacanza dalla musica avevo bisogno di un linguaggio forte e immediato, che mi desse la possibilità di essere compreso a breve distanza. Anche se c’è stato un lungo lavoro di ricerca per arrivare all’utilizzo di un dialetto fluido e global. Che suonasse subito bene e senza bisogno di traduzioni. E’ venuto fuori un disco super vintage, nel senso più contemporaneo del termine. Le mie radici rock hanno fatto il resto. Sono nato e cresciuto con Dylan e i Beatles, una spinta poderosa che non potevo contrastare».

In questo cambio di passo dalla musica alla cucina, non ha mai avuto paura di percorrere strade sbagliate?

«Non conosco l’esistenza delle scelte consapevoli. Credo invece in una sorta di karma, cioè una predestinazione che ci porta a seguire un cammino piuttosto che un altro. Mi rifaccio alle parole di una canzone di Franco Battiato: «quello che deve accadere accadrà, qualunque cosa facciamo per evitarlo». La paura c’è sempre. Ma si tratta di paure necessarie, che ricerchiamo. In fondo, non c’è grande distanza tra la musica e la cucina. Creare un piatto può ricordare la stesura di una canzone e un menù di livello può essere interpretato come la scaletta di uno spettacolo».

Ripensando a Ronnie Wood, a Battiato o a Jim Kerr, cosa le torna in mente?

«Ricordo la fatica fatta con la band per stare dietro a Wood nelle notti taorminesi. Siamo stati in giro per l’isola per oltre un mese. Spesso la notte, rientrati in hotel, facevamo scherzi telefonici agli amici di Ronnie. Normalissimi scherzi, solo che dall’altra parte del telefono c’erano Julia Roberts, Bon Jovi e Michey Rourke. Da Ronnie ho appreso la regolazione perfetta del fender blues per chitarra, e la capacità di non permettere al pubblico dei concerti di smontarti. Battiato resta un faro nella tempesta».


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