San Berillo, parla l’architetto Cucinella «Lavoro solo a progetti che si realizzano»

L’aula magna del Monastero dei Benedettini è stracolma. In prima fila il gotha dell’Ance Catania, l’associazione nazionale dei costruttori edili, dal presidente Nicola Colombrita al neo assessore regionale Andrea Vecchio. Nelle file dietro moltissimi volti giovani. Tutti in silenzio, per seguire la lectio magistralis di Mario Cucinella, il progettista che ieri mattina ha svelato il futuro di San Berillo. Per capire chi è Cucinella e su quali idee si fonda la sua architettura è utile prendere in prestito due immagini di cui lo stesso architetto di origini palermitane afferma di «essersi innamorato» e che mostra durante la lezione. La prima è una fotografia frontale in controluce: c’è un cammello con un portapacchi, accompagnato da quello che sembra essere un beduino. L’immagine successiva mostra gli stessi soggetti di profilo, stavolta ben delineati. Il portapacchi si rivela un pannello fotovoltaico che alimenta un piccolo frigo dove il beduino, in realtà un medico, trasporta attraverso il deserto alcuni medicinali. Un concetto che Cucinella, nell’intervista rilasciata a Ctzen, traduce con poche parole: «cerco di adattare la contemporaneità al sistema di reti e di relazioni già esistente su un territorio». Lo ha già fatto in giro per il mondo: dalla striscia di Gaza in collaborazione con l’Onu, all’Africa.

Architetto, ha detto di essere venuto più volte a Catania dopo aver ricevuto l’incarico per il San Berillo. Che impressione ha avuto della città?
È raro poter lavorare in Sicilia. Mi è sembrata subito una grande opportunità per mettere a servizio di un’area così importante le mie idee. Non venivo a Catania da quasi dieci anni e ho trovato una città con uno spirito più europeo: piazza Duomo è stata pedonalizzata, ho notato meno traffico. Politicamente non so da dove derivi questo cambiamento, però mi sembra che anche nei posti più difficili come Catania, sia in atto una riscossa, un tentativo di valorizzare gli spazi pubblici.

La realizzazione del masterplan negli ultimi mesi è stata avvolta dal mistero. Fino al cambio in corsa tra Massimiliano Fuksas e lei. C’è stato un confronto tra di voi? Quando ha iniziato a lavorare davvero su questo progetto?
Non ho avuto nessun contatto con Fuksas, non era necessario. Non so che tipo di problemi siano sorti in passato, noi lavoriamo da tre mesi alla riqualificazione del San Berillo, i primi contatti con i proprietari sono avvenuti a marzo. Abbiamo agito subito su due fronti: risolvere i problemi amministrativi e andare avanti con lo sviluppo architettonico. Devo dire che negli uffici del Comune abbiamo incontrato persone altamente qualificate.

Quali linee guida ha seguito nella progettazione?
Quando si distrugge un pezzo di città, bisogna essere molto cauti nell’intervenire nuovamente. Abbiamo avviato una profonda riflessione sul tema delle connessioni urbane e sul senso che assume questo luogo nel contesto di una città già consolidata. Per assurdo e guardandolo non da un punto di vista speculativo ma prettamente urbano, servirebbe il triplo dei volumi per ricostruire quel vuoto con la stessa densità urbana che c’è nella zona circostante.

Eppure in passato si è parlato di realizzare anche un centro commerciale su Corso dei Martiri…
Assurdo, non si può prendere un modello come il centro commerciale e inserirlo dentro una città.

Come si persegue il bene dei cittadini lavorando su terreni che sono di proprietà di pochi privati che inevitabilmente guardano ai loro interessi?
Ho subito pensato di creare un grande spazio pubblico, una passeggiata che parte da piazza della Repubblica e arriva fino a piazza Giovanni XXIII. Intorno proviamo ad appoggiare dei volumi bassi a tre piani (le terrazze dal lato di via Archimede ndr). Ma la cosa che ritengo più importante è che un intervento come questo non deve rimanere chiuso all’interno degli edifici, non può costituire un atto di speculazione classica. Al contrario deve generare maggiore qualità urbana per tutti i cittadini. Lavorare dentro un tessuto urbano non è come lavorare su un terreno vuoto. Bisogna esprimere una contemporaneità all’interno di un sistema di reti e di relazioni che la città custodisce già in sé.

Questa ferita non sanata per decenni testimonia di un legame malato tra politica e imprenditoria/progettisti. Quali devono essere, secondo lei, i rapporti tra politica ed architettura?
Questo mestiere non si fa da soli. È sempre una combinazione di interessi e di complicità nel senso buono della parola. Spesso però la complicità dei professionisti nei confronti di una politica che non guarda al bene comune, produce scempi. L’architetto da questo punto di vista è una persona molto pericolosa.

Catania è stata vittima di questa complicità?
Se per tanto tempo non è successo niente, dipende dal fatto che i soggetti in gioco non avevano le competenze giuste, oppure non perseguivano il bene comune della città. Oggi la situazione è diversa, perché, come in tutti i processi, siamo giunti ad una conclusione. È impossibile tenere ancora San Berillo in queste condizioni per altri trent’anni. È in atto un forte cambiamento culturale, è cresciuta la sensibilità dei cittadini: nascono i comitati, la politica non può più nascondersi dietro interessi diversi. Oggi non è sostenibile un’azione che non abbia alla base un’interpretazione pulita di un intervento come questo.

Molti catanesi rimangono scettici. Perché questa dovrebbe essere la volta buona per la riqualificazione del San Berillo?
Intanto quello che è stato presentato non è solo un disegno. Abbiamo consegnato anche le tavole tecniche dell’accordo di programma. Oltre al progetto dell’architetto, per la prima volta anche tutta la parte amministrativa è giunta a termine. Oggi la palla è in mano al Comune che, secondo la legge, ha 45 giorni per effettuare l’ultima verifica, ma il sindaco ha già detto di voler comprimere questo tempo, per chiudere definitivamente la convenzione. Vorrei rassicurare tutti: ho chiesto specificatamente di non farmi lavorare su una cosa che poi non si realizzerà. Credo inoltre che la compagine imprenditoriale consideri questo progetto come un’opportunità. Ci sono tutti gli ingredienti per essere sereni.


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