Samuele Bersani e l’abusivismo musicale

«Non faccio musica perché ho gli occhi verdi», ha sorriso Samuele Bersani, il 17 novembre 2006, al teatro Metropolitan di Catania, durante il tour per la presentazione de “L’aldiquà”, che all’epoca era il suo ultimo cd d’inediti.

Samuele Bersani non fa musica perché ha gli occhi verdi, e questo lo darebbe per scontato chiunque abbia ascoltato almeno una volta pezzi come “Il mostro”, “Che vita!” o “Barcarola albanese”, chiunque si sia chiesto il perché delle lunghe pause tra un album e l’altro, chiunque sia disposto a guardare la società, coi suoi paradossi, attraverso la lente deformante della musica e del cantautorato della miglior specie.

Negli ultimi anni, gli ascoltatori accaniti avevano notato un più acceso interesse verso la politica e il mondo, una minore voglia dell’artista di Rimini di raccontare la sua vita, i suoi sentimenti.

“L’Aldiquà” parlava di scrutatori non votanti, di portatori sani di sicuro precariato e di maratoneti che arrivano quarti però sono bravi lo stesso. Era un album complesso, una buona prova d’autore, ma non delle migliori.

 “Manifesto abusivo” è qualcosa di diverso. E’ una bacheca d’immagini, un gioco di rimandi, un lavoro pieno di sorprese, per parafrasare il secondo singolo estratto. Uscito più di un mese fa, non si presta ad un ascolto superficiale, merita un’analisi approfondita al pari di certe poesie lette e rilette.

“Manifesto abusivo” è una sfilza di cortometraggi che s’inseguono senza pubblicità. Sin dall’inizio, si ha l’impressione di pedinare qualcuno, di stargli accanto, quasi col fiato sul collo.

Il dolore per una storia che finisce, i lividi, gli insulti, il classico “ti rigo la macchina” che si declina in fili da strappare dal cofano, perché dà piacere, sì, per un momento e basta, però.

Poi c’è la speranza della title track, il postino dal quale correre a braccia aperte «con entusiamo demente, pronto ancora a credere che oltre alle bollette ci siano lettere d’amore».

Non manca neanche l’atteggiamento ironico nei confronti della società che vive in un continuo “Pesce d’aprile”, solo che non se ne accorge: se aprono un albergo ad Alcatraz, cosa li fermerà dall’inaugurare un ostello a Guantanamo, o un bed & breakfast all’interno delle villette degli orrori, oppure un centro termale a Chernobyl?

 

Se la realtà globale sfiora il paradosso, quella locale non è affatto migliore. E Bologna ne diventa il paradigma, in una canzone d’amaro amore: amministrazioni sbagliate, cittadini irresponsabili, lo sfacelo che si fa sempre più evidente in una città dalla bellezza quasi commovente. L’ascoltatore isolano sostituisce Catania al capoluogo emiliano, e il brano s’adatta senza troppa fatica.

In questo clima di smarrimento, è facile che perfino un ragno abbia più certezze di chiunque altro. E’ questo che Bersani canta in “Ragno”, appunto, dialogo delirante tra un inquilino e l’insetto, un inutile idealista che si nasconde dietro al suo strafare e non vuole considerare che è soltanto una nullità. E se col talento non si va da nessuna parte, bisogna sperare «d’impiegasse all’ufficio delle tasse, non contando che, pure a volerlo, è difficile anche quello, con la crisi che ce sta».

Forse vittima della crisi è anche la giovane donna di “16:9”, che ripara le unghie a domicilio per soli dieci euro, si perde tra la folla di uno sciopero e poi piange una lacrima, soltanto una, pensando ad una vita in bilico tra dolore e felicità.

“Manifesto abusivo” si chiude con un po’ d’amaro in bocca e tante riflessioni, con la voglia di ripartire dalla prima canzone e arrivare all’ultima d’un fiato.

Un bel cd, come ne escono davvero pochi.


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