Salvi e le linee guida della procura etnea Indagini minori rapide e rinforzi all’antimafia

«I furti di rame saranno per noi una priorità, ma potenzieremo anche la direzione antimafia». Giovanni Salvi, procuratore etneo da pochi mesi, fa il punto sull’organizzazione del suo ufficio, anticipandone le nuove linee guida. Ci sarà molta più attenzione ai piccoli reati «perché sintomo di abbandono del territorio» è l’annuncio del procuratore capo, che però non dimentica la lotta alla mafia mettendo in rilievo «i colpi durissimi, anche se non mortali, inferti ai clan in questi anni, con la maggior parte dei capi trovati e incarcerati. Anni fa i latitanti stavano tranquilli a casa loro».

L’occasione per parlare di tutto questo e molto altro è la presentazione a Cittàinsieme del libro di Sebastiano Ardita Ricatto allo Stato. Per anni direttore del’ufficio detenuti del Dap, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e ora procuratore aggiunto a Messina, Ardita nel libro ricostruisce la sua esperienza di responsabile delle carceri italiane. Tema principale, la controversa storia del 41 bis, «il cosiddetto carcere duro, perché per anni è stato usato come risposta repressiva dallo Stato colpito dalle stragi, mancando spesso lo scopo di evitare la comunicazione con l’esterno per i boss, come nel caso dell’omicidio dell’agente di polizia penitenziaria dell’Ucciardone Giuseppe Montalto».

Moderato dalla giornalista de La Sicilia Carmen Greco, l’incontro pone da subito in essere i problemi della detenzione in Italia, un problema su cui i magistrati hanno una visione comune: «E’ il sintomo di una grave malattia del sistema penale italiano», afferma Ardita. In uno scenario che vede il sessanta per cento degli oltre 60mila detenuti in carcere per meno di un mese, «il 41 bis negli anni è cambiato, avvicinandosi sempre più alla sua funzione originaria» commenta Ardita. E con 680 detenuti è un problema marginale nel complesso sistema penale italiano che, continua il procuratore di Messina, «è ipergarantista per chi ha le risorse economiche per difendersi, facendo andare a rilento processi gravi come quelli per corruzione, e riempendo le carceri di chi non può difendersi, come gli stranieri».

«I magistrati – dichiara Giovanni Salvi – devono imparare a entrare nelle carceri per due motivi: essere consapevoli di dove si mandano le persone, luoghi come Bicocca e piazza Lanza dove non funziona il riscaldamento, e favorire la comunicazione con l’esterno di questi posti chiusi, per instaurare un clima di libertà e giustizia». Il problema è però l’eccessivo carico di lavoro, che il procuratore capo catanese spera di risolvere in parte tramite l’ausilio dei processi per direttissima che verranno introdotti «per la prima volta a Catania quest’anno». L’orientamento è quindi quello di rendere più rapide le indagini per quelle che vengono definite a più riprese «bagatelle», per poi «continuare nell’azione antimafia, per la quale ho assegnato un magistrato in più nella Dda e di cui seguirò personalmente l’operato», dichiara il reggente della procura etnea. Procuratore che ricorda, però, come i problemi più gravi siano legati all’organizzazione materiale con «tredici immobili e quindi sprechi e duplicazioni di procedure. Un problema sul quale i cittadini possono fare molto, visto che a dare gli immobili è il Comune, con il palazzo di viale Africa acquistato e mai utilizzato».


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Il procuratore capo etneo presenta la strategia per far ripartire la giustizia a Catania: più attenzione ai piccoli reati sul territorio, processi per direttissima e potenziamento della Dda. Ne ha parlato a Cittàinsieme nel corso della presentazione del libro del collega Sebastiano Ardita, ex direttore del Dap, ora procuratore aggiunto a Messina, che lancia un allarme: «La situazione delle carceri è il sintomo della malattia della giustizia penale»

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