Rubrica/Caffè amaro-Stragi di mafia ‘92-’93, dopo i ricordi che affiorano, le accuse

L’Italia, per dirla con Leonardo Sciascia, si conferma “un Paese senza verità”. In questi giorni – in realtà, ormai, è più di un anno che va avanti così – i giornali riportano le testimonianze dei protagonisti degli anni in cui la mafia (o qualcosa di più della semplice mafia?) ammazzava i giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli uomini e le donne delle rispettive scorte. E se queste stragi sono del 1992, ci sono anche le bombe del 1993 seminarono morte e distruzione di beni culturali tra Roma, Milano e Firenze. Anche del 1993 ci sono, oggi, tardive testimonianze.
Già, le testimonianze che arrivano oggi. Da parte di chi è ancora vivo, perché alcuni dei protagonisti di quella stagione non ci sono più.
Impressiona, ad esempio, la testimonianza di Nicolò Amato, allora numero uno del Dap, la struttura dalla quale dipende la gestione delle carceri del nostro Paese. Già è singolare che parli solo adesso, riferendo cose gravissime. Ma ancora più singolare è che queste cose gli vengano chieste solo adesso e non subito dopo le stragi del 1993.
E’ importante una considerazione. Ogni protagonista di quegli anni – gli ex ministri Giovanni Conso, Claudio Martelli, Nicola Mancino e il già citato Amato – dà la propria versione dei fatti. All’inizio il ritrovamento della memoria di ognuno di questi personaggi – come dire? – non si intersecava con i ritrovamenti di memoria degli altri. Oggi le memorie si mescolano e, spesso, collidono.Nel senso che quello che dice l’uno non corrisponde a quello che dice l’altro. E, com’era prevedibile, si sta approdando nel gioco dello scarica barile: ognuno riversa eventuali reponsabilità sugli altri.
Tornando a Nicolò Amato, è interessante notare un particolare: là dove Amato ricorda di essere stato sostituito, ai vertici del Dap, da Adalberto Capriotti. Sotto la regia del quale, dice testualmente Amato, i mafiosi reclusi con il carcere duro passano “da 1.300 a 536”. Amato ricorda anche di avere più volte sollecitato la registrazione dei colloqui tra i mafiosi detenuti con regime di cercare duro e i vari soggetti cche andavano a trovarli. Così apprendiamo che questi mafiosi, le rare volte che parlavano con qualcuno, lo facevano liberamente, senza essere controllati. Davano ordini per uccidere persone? Amato lascia intendere di sì. E aggiunge che se gli avessero dato retta, alcuni delitti sarebbero stati evitati.
Lo ripetiamo: tutte le dichiarazioni dei protagonisti di quegli anni vanno prese con le pinze. Se non altro perché le loro rivelazioni arrivano con vent’anni di ritardo (anche se gli stessi protagonisti potrebbero obiettare che, fino ad oggi, nessuno gli aveva chiesto nulla). Però una cosa è certa: non si revoca il carcere duro a oltre 800 mafiosi così, tanto per il piacere di revocarlo. Allora, in Italia, c’era un governo. Ed è stato quel governo a revocare il carcere duro ai mafiosi.
Questa nostra considerazione nasce dal fatto che, oggi, i magistrati che indagano sulla stagione delle stragi ipotizzano una sorta di trattativa tra Stato e mafia. Non sta a noi dire se questa trattativa c’è stata o no. Per un fatto, più che certo, sembra logico: se trattativa c’è stata, la vicenda del carcere duro revocato non dovrebbe essere estranea a questa trattativa. Negare questo vorrebbe dire che le persone che, nel nostro Paese, hanno ancora un po’ di cervello dovrebbero ‘conferirlo’ all’ammasso.
Un grande protagonista della prima commissione nazionale antimafia – che poi è la commissione parlamentare che, meglio di tutte le altre, ha scandagliato il mondo della mafia – definiva lo Stato italiano “brigante”. Si chiamava Simone Gatto, era un parlamentare socialista vecchia scuola, non legato alle varie camarille di partito. Un uomo libero che, non a caso, era amico con un altro componente della prima commissione antimafia, il comunista Girolamo Li Causi, anche lui uomo libero, anche se, spesso, ‘strattonato’ dal suo partito (che già allora, sulla mafia, ‘strattonava’, come ‘strattonano’ oggi certi dirigenti del Pd siciliano…).
Quello che possiamo dire, alla luce di quello che sta emergendo, con venti anni di ritardo, sulle stragi del 1992-1993, è che lo Stato italiano di allora, per dirla con Simone Gatto, era “brigante”. E oggi? Brigante, brigante, brigante…

 


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L’italia, per dirla con leonardo sciascia, si conferma “un paese senza verità”. In questi giorni - in realtà, ormai, è più di un anno che va avanti così - i giornali riportano le testimonianze dei protagonisti degli anni in cui la mafia (o qualcosa di più della semplice mafia?) ammazzava i giudici giovanni falcone, paolo borsellino e gli uomini e le donne delle rispettive scorte. E se queste stragi sono del 1992, ci sono anche le bombe del 1993 seminarono morte e distruzione di beni culturali tra roma, milano e firenze. Anche del 1993 ci sono, oggi, tardive testimonianze.

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