Rosario Livatino: il giudice ragazzino

Il 21 Settembre 1990 sulla strada che da Canicattì conduce alla Valle dei Templi veniva ucciso con sette colpi di pistola, sparati a bruciapelo, il giudice Rosario Angelo Livatino. Rosario aveva solo trentotto anni, e la “Stidda”, gruppo mafioso  agrigentino, si è “disturbata” di farlo fuori tramite sicari giunti dalle terre teutoniche, a dimostrazione del fatto che il giudice era divenuta personalità scomoda e lesiva per tutta la grande e lercia cupola siciliana.

 

Rosario Livatino muore sotto il governo democristiano, governo acclamato a pieni voti nelle elezioni, ma sostanzialmente incapace di mantenere promesse di un’Italia pulita e giusta, forse perché imbrigliato in oscure trame, da esponenti, leader di partito, che con la Mafia c’erano dentro fino al collo, o forse erano la Mafia stessa. Governo che di lì a poco cadrà definitivamente portandosi con sé tutte la sozzure e i misfatti di una prima repubblica negli ultimi anni deprecabile.

 

Rosario Livatino era andato troppo a fondo nelle sue indagini, aveva cambiato il tragitto di una sentenza volta a scagionare persone che erano un tutt’uno con Cosa Nostra. Siamo nell’ambito del processo penale, si è voluto riformare il codice Rocco (processo indiziario che prevede l’assoluzione per insufficienza di prove), scopiazzando il processo penale statunitense. Questo si fonda sulla prova legale e a giusta ragione non prevede l’assoluzione per insufficienza di prove. Se a tutto questo si aggiunge che in penale il giudice giudica secondo il suo libero convincimento, si ha che Andreotti e Contrada, rispettivamente assolto e condannato dal presidente Ingargiola, potrebbero (senza nulla aggiungere e nulla togliere alle tavole processuali) essere rispettivamente condannato e assolto da un altro presidente senza che nessuno dei due giudici abbia commesso un peccatuccio. Certezza del diritto e certezza della pena vanno a farsi benedire.

 

Rosario Livatino non è un servitore dello Stato, Rosario è solo un uomo che in qualità di giudice e buon cristiano non può tollerare che accada qualcosa che vada a seppellire ciò in cui crede: la legalità, l’onestà nel lavoro e la certezza che il bene alla fine vinca sempre sul male.

Rosario Livatino non è un eroe dei tempi moderni, è solo un uomo che ha cercato fino in fondo di fare il suo dovere, e per questo è stato ucciso, in un sistema che prevede che le sue regole siano adattate secondo due pesi e due misure, che la giustizia non sia uguale per tutti, e che il debole debba soccombere secondo una legge darwiniana applicata non alla natura umana, ma a quella dei soldi e della prepotenza.

 

Il giudice Livatino era un buon cristiano. La preghiera mattutina, la visita a Gesù nella chiesa accanto al Palazzo di Giustizia, il lavoro indefesso al tribunale di Agrigento fino a sera inoltrata, la visita a qualche bisognoso. Rosario era così… un viso dai lineamenti dolci, il sorriso appena accennato, i capelli neri pettinati con la riga di lato. Gli occhi scuri e profondi, lo sguardo fermo, penetrante. Un fisico minuto, da adolescente. Semplice e persino nel vestire. Rosario era un uomo qualunque, un uomo che l’Italia e il mondo hanno conosciuto solo il giorno dopo del barbaro assassinio, e che la coscienza dei popoli ha elevato agli altari dell’onore, battendosi il petto sapendo di non aver fatto lo stesso, di aver lasciato che soprusi, intrighi e violenza spadroneggiassero. “Il muro di gomma” della società italiana degli anni novanta: ecco chi ha ucciso davvero Livatino, tutte quelle personalità e persone che non hanno avuto come lui il coraggio di dire di no alla Mafia, magari con la bocca tappata dai soldi e da una lupara puntata alla schiena, personalità cui unico scopo era quello di tenere la poltrona da senatore per il resto dei giorni, una poltrona indegna, ma mascherata con le belle e false parole di una serpe che l’Italia covava in seno.

  

Il lavoro svolto dal giudice Livatino, la sua persona che credeva fortemente in Cristo, tanto che ai giorni nostri si pensa possa essere elevata dal Papa a venerabile, non sono morti, ma hanno contribuito a cambiare la società, che adesso, quattordici anni dopo, reincarna il giudice Rosario Livatino nei giovani, nella loro testa, nel loro cuore, nella loro speranza che mai si spegne.

 

                                                                                             

     

Salvo Angemi

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