«Era la vita nel suo farsi e disfarsi che gli pareva insulsa; a prescindere dallesito di un qualsiasi slancio; era la vita stessa a parergli uno sbadiglio. Non è che si sentisse tradito dagli anni, questo no. Ma non gli andava più a genio lallegria: era un abito che non indossava più. Tutto qui». La città di Serbottana e le vicende della signorina Bengasi in un nuovo capitolo del romanzo di Sergio Salamone con le illustrazioni di Francesco Guarino - Leggi tutte le puntate
Romanzo a puntate, sesta parte Racconto dell’occhio destro? seconda notte
Racconto dell’occhio destro? seconda notte.
Le scale, pensava, sono una fatica necessaria per giungere alla stanza più vicina. Questo quando si scende; quando si sale, non più. Ci si intrufola in un batuffolo d’ovatta, così da custodire il proprio tempo, le proprie poche tenerezze.
Quando l’uomo le percorreva, andando verso il basso, avvertiva come un frantumarsi del sé; per ogni gradino fatto, una frammentazione. Una volta giunto alla fine dell’ultima rampa non gli rimaneva quasi più nulla di ciò che era stato pochi minuti prima.
Il prosieguo del percorso era una graduale, costante dispersione; non lo avrebbe stupito vedere orme liquide formarsi dietro ogni suo passo. Rilasciava progressivamente la sua anima: un drappo liquido, stanco. Gli era accaduto, un giorno, di smarrire la forza del gesto: alzare le mani non era stato più alzare le mani, fare il gesto di fermare qualcuno non era stato più il gesto di fermare qualcuno.
La volontà del manifestare la propria curiosità si era essiccata; il suo spirito di partecipazione era stato vanificato da troppe lune. Ad ogni portone che si affacciava sulla via, lo prendeva un trasalimento misto ad un sospetto.
Non aveva mai il coraggio di guardare gli occhi dei passanti, sospettava celassero un ideale troppo grande, la cui realizzazione avrebbe comportato un’immane fatica.
Questo ormai lo estenuava: pensare che al mondo ci fossero uomini ancora convinti della possibilità di un cambiamento. La loro ebete illusione lo feriva. Durante le manifestazioni si dimenavano come iene rabbiose, urlavano slogan idioti. Ognuno dei suoi conoscenti aveva perso un amico, un figlio, un amante, un padre; ogni vicolo della sua città parlava di un pestaggio, di una tortura, di un tradimento. Bisognava convivere col sangue: tutto qui. Abituarsi alla disfatta. La morte era semplicemente una questione di tempo: era nelle vene di tutti. A lui bastava portare a casa quel po’ di pane.
Non aveva molta considerazione per i suoi familiari. Semplicemente gli era toccata la parte di chi procura i viveri al resto della compagnia. Ma la sua vita non poteva dirsi infelice. Non aveva più provato un’emozione, non aveva quasi più sorriso, questo sì. Ma gli accadeva spesso di provare commozione quando incrociava i cani randagi: allora non poteva trattenere una carezza.
Non amava neanche vedersi riflesso nelle vetrine dei negozi: ciò che scorgeva era un abisso, un gorgo, un viso già risucchiato dalla terra. Sfatto, verminoso, prossimo alla resa.
Quella città, la città che circondava l’uomo, pareva sprofondare nella terra. La mattina, se si rimaneva sul bordo del cratere che la attorniava, si sarebbe potuto pensare che non esistesse. Si avvertivano appena, distanti, i rumori del vivere metropolitano; come fossero fruscii di automi instancabili. Però, chi giungeva in quel luogo per la prima volta, non si aspettava certo che, all’interno di quella strana cava circolare, potesse esserci qualcosa. Perfino chi abitava lì, quando si arrampicava, andando oltre la valle, sospettava che non avrebbe più visto nulla, al ritorno; laggiù in fondo. Che avrebbe perso i suoi cari; come digeriti dalla terra. Eppure sapeva che, da dove veniva, v’erano palazzi, grattacieli, parchi disastrati, vie strette, scuole, ospedali, semafori.
L’uomo vedeva quella corona di montagne circondare le case, e si chiedeva a cosa valesse fare il pescatore, laddove non c’è acqua. Perché non v’era il mare, nella città inabissata. L’uomo prendeva la rete, la trascinava per strada, e cominciava a raccogliere quello che trovava: parole, bambini, ceste, singulti. Non sempre il rientro dal lavoro era soddisfacente; frequentemente non riusciva a prendere niente. Allora lo attendeva la consorte, ormai disillusa, che gli sputava addosso tutto il suo livore.
Egli non replicava nemmeno: sapeva benissimo che sarebbe bastata una pesca fortunata, per farla tornare contenta.
Ricordava ancora di quando, in una sola giornata, era riuscito a trovare una pelliccia, un’auto, e un passerotto. Quale giorno di festa non sarebbe stato per la sua famiglia! Pensava che l’uccellino sarebbe servito a rallegrare la prole. Ma lo trovò cucinato ben bene dalla più che solerte compagna, la quale aveva sempre fame di qualcosa; e pareva non accontentarsi mai.
Nei suoi giri cittadini, gli capitava di chiedersi cosa ci fosse aldilà di quel buco di cielo. Ma non era mai andato oltre il solito tracciato; non ne aveva sentito il bisogno.
Quando c’era stato l’urlo sommesso dei garage abbandonati, degli scantinati ormai in disuso, egli si era semplicemente dedicato a guardare in alto. Eppure, quando tornava al suo appartamento, sentiva addosso una stanchezza di millenni. Le grida che si intuivano, quando l’alba bagnava di un chiarore soffuso l’asfalto, non erano mai simili le une alle altre.
Alcune erano strida di giovani vite, covavano la delusione di una rivoluzione mancata, ma mantenevano una forza inesausta, altre, invece, erano rantoli di bestie ormai ferite a morte: un suono accorato, un muro crepato.
Quando le voci si intrecciavano poteva apparire che latrasse la città stessa, che il corso principale fosse il budello di un cane infernale.
In un calderone di frasi smozzicate, il senso di ciò che era stato si disperdeva in un gozzoviglio di dolori.
All’uomo non interessava poi troppo che fosse tornato il regime.
Eh sì, che, sporadicamente, ripensava a quando aveva trovato, impigliata nella rete, la foto di un bambino. Che quello stesso piccolo essere potesse essere tra coloro i quali venivano minacciati e uccisi, o tra quelli che stringevano il manganello tra le dita, gli era del tutto indifferente.
Ancora: era la vita nel suo farsi e disfarsi che gli pareva insulsa; a prescindere dall’esito di un qualsiasi slancio; era la vita stessa a parergli uno sbadiglio. Non è che si sentisse tradito dagli anni, questo no. Ma non gli andava più a genio l’allegria: era un abito che non indossava più. Tutto qui.
Aspettava di potere dire addio.
Allora quella cappa viscosa svaniva; non era più brodaglia, ma nesso.
Racconto dell’occhio sinistro; seconda notte.
Un cuore pulsante, fetido, nerastro.
Il suo battito meccanico.
Come un macinino da caffè.
[Illustrazione di Francesco Guarino]