Nomi senza volti, impronte senza mani, oggetti senza proprietari. E una morte ancora senza verità. Quella di Rita Atria, la più giovane testimone di giustizia che si sarebbe suicidata lanciandosi da una finestra di una casa a Roma, il 26 luglio del 1992. Non è, però, la questione temporale a fare della 17enne originaria di Partanna (nel Trapanese) la settima vittima della strage di via D’Amelio, ma il suo rapporto con il giudice Paolo Borsellino. È a lui, all’epoca procuratore di Marsala ma per lei diventato come uno zio, che racconta tutto quello che sa sulla mafia del suo paese. E, da figlia e sorella di mafiosi, di cose ne sa. Al punto che, dopo le sue rivelazioni – che porteranno a importanti arresti – decide di seguire la cognata Piera Aiello nella capitale all’interno del sistema di protezione. «Muore da sola, abbandonata a se stessa», si legge nell’istanza di riapertura delle indagini presentata dall’avvocato Goffredo D’Antona che assiste la sorella Anna Maria Atria e l’associazione antimafia Rita Atria. «Le indagini dell’epoca sono gravemente incomplete con passaggi e scelte investigative inspiegabili». Il caso è stato archiviato come suicidio ma, dopo l’esposto, è stato aperto un fascicolo senza reato. «Finora – denunciano dall’associazione – a Rita è stato negato il diritto alle indagini».
«Mancano indagini per verificare l’istigazione al suicido». Che, invece, sarebbero state fondamentali per la morte di una 17enne «che viveva in una condizione di fortissimo stress psico-emotivo». Tra i tanti pensieri che Rita Atria affidava al suo diario ce n’è uno scritto nella settimana che separa il decesso del giudice dal suo: «Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io, senza di te, sono morta». La paura sembra evidente e, forse, anche «la certezza – come si legge nell’istanza – che l’avrebbero trovata». Di recente, a 32 anni di distanza, la sorella ha ricevuto una lettera dal prefetto Angelo Finocchiaro. L’uomo che, nel 1992, era l’alto commissario antimafia a cui il tribunale per i minori di Palermo aveva affidato la protezione della testimone di giustizia. Lui, però, Rita Atria non l’ha mai conosciuta. Scrive di averle garantito un rifugio e di avere segnalato gli spostamenti alla questura. Da lì, le comunicazioni si sarebbero poi allargate facendo cadere la riservatezza. «Dalle indagini non emerge mai alcuna figura di riferimento – afferma l’avvocato D’Antona – ma l’assoluta assenza degli uomini dell’alto commissario». E non sarebbe l’unica assenza. Non è chiaro chi fossero le persone che si occupavano della vigilanza della ragazza; non è stato identificato l’assistente di polizia che è intervenne sul posto insieme ai carabinieri e nemmeno il commissario che ottenne dalla procura la restituzione della rubrica di Rita Atria per «motivi di segretezza».
Alle 14.50 del 26 luglio del 1992 Rita Atria viene ritrovata sull’asfalto di viale Amelia. Morirà in ospedale tre ore dopo. Per l’autopsia bisognerà aspettare tre giorni e 50 per gli esami tossicologici. Trentadue anni per scoprire che il tasso alcolico nel sangue di Rita era di 0,38 per cento al momento degli esami, ma di quasi l’uno per cento al momento in cui la ragazza precipitava. Un quantitativo molto elevato in grado di alterare lo stato psico-fisico con «un’azione depressiva sui centri motori, la perdita dell’autocontrollo e disturbi dell’equilibrio». O, come scrive il medico legale Luigi Gaetti, in una sola parola: «Ebbrezza». In casa, però, non è stata trovata nessuna bottiglia di alcolici. Solo un bicchiere di vetro rotto nel lavello della cucina e una bottiglia di Martini sistemata in uno stipetto della cucina in alto. «Chi beve senza freno – sottolinea l’avvocato D’Antona – non si preoccupa di riporre in alto la bottiglia».
Una bottiglia su cui, per altro, non sono state trovate impronte digitali. Così come in tutto il resto dall’appartamento al settimo piano del civico 23 di viale Amelia. Fatta eccezione per una sola impronta rimasta sul davanzale della finestra da cui sarebbe caduta Rita Atria. Solo che, quell’unica impronta, non è mai stata comparata nonostante la richiesta dei carabinieri della scientifica. Dunque, non si può dire con certezza che fosse della vittima.
Nessuna certezza anche sul proprietario di un orologio trovato appoggiato sul frigorifero in cucina. Un oggetto che non risulta nel verbale dei carabinieri e che non fu nemmeno repertato per le analisi ma solo fotografo. Di recente, Piera Aiello – moglie del fratello di Rita Atria con cui condivideva la casa a Roma ma che, in quei giorni, non era lì – ha dichiarato di essere stata contattata da un uomo che avrebbe rivendicato la paternità dell’orologio. Un nome che, però, la testimone di giustizia che nel 2018 è stata eletta alla Camera dei deputati con il M5s, sembra intenzionata a dire soltanto alle autorità competenti.
Del fidanzato Gabriele di certo c’è solo il nome. Sul cognome c’è già il dubbio della lettera iniziale. Un ragazzo, marinaio di leva calabrese, con cui Rita Atria ha un rapporto fatto di lettere piene di confidenze. Eppure, il giovane non è mai stato sentito. Non è l’unico uomo rimasto un mistero in questa storia. Nel diario a cui la 17enne affidava i propri pensieri più profondi, più volte, si legge di un certo Angelo «che sa come arrivare al mio cuore». A lui la ragazza avrebbe consegnato un libro che stava scrivendo perché lo consegnasse a Michele Santoro. Il giornalista, però, ha sempre negato di averlo ricevuto e del testo non si è mai trovata traccia. Sulla sua identità, al momento, solo ipotesi: un maresciallo dei Ros soprannominato Tex oppure un uomo vicino a Borsellino che ha dichiarato di conoscere bene Rita Atria e di essere stato a lungo in contatto con lei. Ed è lui che la ragazza, stando a quanto gli fu riportato da un dipendente dell’alto commissariato, avrebbe cercato proprio la mattina di quel 26 luglio del 1992.
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