Il proliferare degli animali selvatici in provincia di Messina e sulle Madonie potrebbe avere un motivo economico. Secondo i report commissionati da alcuni enti locali, milioni di euro sarebbero stati spesi negli ultimi 15 anni nella sola provincia peloritana. Tutto ha inizio negli anni 80 con l'importazione di tre capi
Risarcimenti milionari dietro il boom di cinghiali Nessun provvedimento concreto e lo Stato paga
Potrebbero esserci risarcimenti danni da milioni di euro, a carico di Stato e cittadini, dietro la crescente presenza di cinghiali in provincia di Messina, anche nel centro cittadino del capoluogo. E, sebbene l’emergenza sia avvertita solo in quest’ultimo periodo, sembrerebbe che il fenomeno risalga alla fine degli anni Ottanta.
Proprio allora, non è ben chiaro se per un progetto di ripopolamento o meno, tre capi – un maschio e due femmine gravide – sarebbero stati importate dalla Calabria. Il cinghiale, infatti, non è una specie autoctona. Data la sua capacità di riprodursi con estrema velocità, si stima oggi, sul territorio, una presenza di migliaia di esemplari. Impossibile disporre, però, di dati ufficiali, anche per via dell’indisponibilità degli addetti della ripartizione faunistico venatoria, malgrado le ripetute richieste di riscontri.
Proprio questa proliferazione avrebbe fatto sì che la situazione sfuggisse di mano alle istituzioni. Con effetti deflagranti sui fondi privati, oltre che sul demanio forestale. Trattandosi di animali selvatici, la proprietà appartiene allo Stato, chiamato a sborsare ogni anno milioni di euro, in tutta Italia – come testimoniato dagli studi pubblicati dall’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale – per il cosiddetto risarcimento per danni da fauna selvatica. Corrisponderebbero a milioni di euro pure i risarcimenti nella sola provincia di Messina negli ultimi 15 anni, come lasciano intendere i report commissionati da alcuni enti locali. Non a caso, secondo gli studiosi, la presenza di cinghiali in aree interessate per lo più da coltivazioni di importanza economica è inaccettabile.
È l’Ispra a certificare che, mediamente, oltre l’80 per cento dei rimborsi dei danni causati dalla fauna selvatica è da attribuirsi ai cinghiali. Nei primi anni del nuovo millennio, il costo dei rimborsi dei danni e delle spese di prevenzione per ogni cinghiale abbattuto durante la caccia era di quasi 300 euro, il doppio del valore commerciale delle sue carni. Il rimedio sarebbe il costante monitoraggio, anche attraverso i danni prodotti. Soprattutto, sarebbe richiesta una forte sinergia tra istituzioni, considerati i continui spostamenti di capi da aree protette ad aree in cui è consentita la caccia.
Dopo una serie di rimpalli di responsabilità, lo scorso 2 settembre, in Comune, gli enti a vario titolo competenti si sono riuniti. La decisione assunta sarebbe di acquisire maggiori conoscenze del fenomeno – sebbene dagli anni Ottanta a oggi di tempo ce ne sarebbe stato – di disincentivare la proliferazione degli allevamenti, di ricorrere a corretti strumenti di gestione e programmazione. Niente di concreto, anche perché è dibattuto se impiegare metodi ecologici, come la cattura e gli abbattimenti selettivi, o la cattura mirata e la sterilizzazione farmacologica. Per arginarne la presenza in città si pensa pure all’installazione di reti metalliche ed elettrificate a spese dei privati o della pubblica amministrazione.
Palazzo Zanca dovrebbe codificare il tutto – ma in effetti non si capisce cosa – in un’ordinanza sindacale. Nelle more, l’assessore all’Ambiente, Daniele Ialacqua, suggerisce un maggiore controllo ed eventualmente l’interdizione delle aree comunali e dei villaggi collinari dove si sono verificati gli avvistamenti, con un’apposita segnaletica di pericolo. Oltre al mantenimento della massima pulizia nelle zone interessate, con particolare riferimento allo svuotamento costante dei cassonetti, allo spazzamento incisivo e a interventi di diserbo e decespugliamento.
Sono sempre i tecnici ad assicurare, tuttavia, che il cinghiale può assalire l’uomo solo se questo lo ferisce. Può essere invece mezzo di trasmissione di patologie pericolose come pesti suine e tubercolosi. Mancando in zona predatori naturali come i lupi, è infine suggerita l’attività venatoria come strumento di regolazione della densità della presenza sul territorio. In questo senso vanno gli ultimi provvedimenti della Regione sulla caccia.