Libia e Grecia. Lampedusa e Venezia. Sono solo alcuni dei porti da cui partono e a cui approdano immigrati in cerca di salvezza e che trovano spesso respingimenti violenti, ad opera della polizia. Esperienze di vita raccontate in due video significativi
Rifugiati: indietro non si torna
‹‹Ogni giorno un extracomunitario si sveglia sapendo che deve correre, ogni giorno un comunitario sfruttatore si sveglia e sa che c’è un extracomunitario che deve correre per lui, ogni giorno un politico si sveglia e sa che deve decretare una legge che farà correre un extracomunitario per lui e per il comunitario sfruttatore, ogni giorno un capo di governo extracomunitario si sveglia per tornare a dormire››. Non è uno scioglilingua, ma un pensiero pronunciato da un signore del Marocco che è approdato a Lampedusa per lavorare. Sono parole che danno un quadro chiaro della realtà amara che ci circonda, che non risparmia quasi nessuno. Le raccontiamo per non dimenticare, soprattutto in occasione della giornata mondiale del rifugiato.
La situazione degli immigrati – anche a Catania – degenera di anno in anno, perché nei loro confronti si è reso esasperato un processo di spersonalizzazione sempre più degradante. Loro non sono in condizione di opporsi e continua l’andazzo di cucirgli addosso il ruolo di clandestini senza nome e senza identità. Ma loro un nome ce l’hanno e anche una vita da vivere oltre alle storie da raccontare.
Per far conoscere alcune storie, come di chi racconta ‹‹la polizia mi ha catturato e mi lasciato quattro ore nel bagno››, a Catania si è svolta un’iniziativa di videoproiezione promossa da Reteantirazzista, Gapa, Arci-Melquiades, Cpo Experia, Cobas e Pdci. Sono stati proiettati due video significativi: uno girato a Lampedusa, “Terra mia, terra di tutti”, dalla Rete Antirazzista; l’altro in Grecia tra i porti di Igoumenitsa e di Patrasso, dal titolo “Welcome: indietro non si torna”, promosso dalla Rete Tuttiidirittiumani e da Melting Pot Europa. Entrambi simboli di una giornata internazionale di lotta in difesa del diritto d’asilo e contro i respingimenti per cui si continua a lottare.
Contro il cosiddetto “pacchetto sicurezza” e la legge “Bossi-Fini” è indispensabile mobilitarsi ogni giorno ‹‹senza tener conto che siamo rimasti in pochi a lottare, perché l’importante è esserci e far sentire la nostra voce››, afferma Alfonso Di Stefano a conclusione delle proiezioni.
Questo momento d’incontro è stato voluto fortemente anche per rilanciare le intenzioni dello scorso “Primo marzo”, una giornata significativa per decine di città italiane tra cui Catania, le cui piazze erano piene di migliaia di migranti e cittadini con l’intento di ‹‹cooperare insieme››. Gli obiettivi da raggiungere erano e restano: cancellare il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro; l’estensione della regolarizzazione ad altre forme di lavoro dipendente o autonomo oltre a quello di badanti; la fine dei respingimenti e la chiusura dei “Cie”.
Parte un appello di varie associazioni antirazziste catanesi – alla luce anche degli scontri che da gennaio scorso alla “Fiera” di Catania continuano ad alimentarsi tra ambulanti e forze dell’ordine – per costruire ‹‹una forte risposta all’emergenza prodotta dalla crisi economica e dalla nuove leggi razziali››, per mobilitarsi contro la procedura per ottenere la regolarizzazione definita da molti migranti ‹‹una truffa››: lo Stato Italiano chiede ad ogni emigrato – di qualsiasi nazionalità – di versare cinquecento euro per fare solo la richiesta di regolarizzazione, mentre i datori di lavoro pretendono anche cifre più onerose per un’assunzione che spesso rimane fantasma.
Sono troppi poi gli immigrati che non ottengono il permesso di soggiorno o quelli che ogni giorno rischiano di perderlo a causa della crisi economica, o che non vengono assunti perché sono troppo lunghi i tempi di attesa per il rinnovo della tanto sospirata “Carta”.
Chi è irregolare non riesce quindi a regolarizzarsi, anche perché spesso le questure posticipano i controlli delle richieste di regolarizzazione dei migranti provenienti da intere aree geografiche ritenute “a rischio” cioè Senegal e Maghreb. Così la sanatoria diventa una schedatura di massa. Troppo spesso questi uomini restano irregolari per poi essere espulsi.